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martedì 9 gennaio 2024

Alberto Colombo, campione con poca fortuna




di Luciano Passoni 

Il mondo dell’automobilismo sportivo piange la figura di Alberto Colombo. Gli appassionati, i tifosi e gli addetti ai lavori ricordano ancora la sua inconfondibile figura che appartiene a quella generazione di “ragazzi”, nata nell’immediato dopoguerra, che inseguiva il sogno della partecipazione al mondo delle grandi corse, stimolati dal mito di Monza e del suo autodromo, a due passi da Varedo, dove era nato, dei grandi piloti quali Ascari, Villoresi, Castellotti, se non Bandini e Baghetti, e dei costruttori, su tutti Ferrari e Alfa Romeo. L’occasione è data, nella seconda metà degli anni ’60, dalla nascita della Formula 875 Monza, la categoria che contribuì al lancio dei piloti che poi si sono fatti onore, proprio in quei Gran Premi tanto ambiti, tra la metà degli anni ’70 e gli anni ’90. Alberto comincia con una CRM sponsorizzato dai Cerchi SanRemo, l’azienda di famiglia, che darà il nome anche ai Team che formerà in anni successivi. Passa poi alla LAB, acquistata da tale Pizzetti di Rivolta D’Adda. Costui non l’ha mai usata in gara per la forte contrarietà del padre che era gestore del Samoa, ristorante e night club della cittadina cremasca, e non voleva sentir parlare di corse al punto da desiderare, per il figlio, passatempi e “paradisi” diversi. “Preferirei vederlo fuggire con una delle ballerine del mio locale” affermava.

Da subito, Alberto si dimostra forte vincendo, nel 1968, quattro gare; un anno combattuto e travagliato, molte squalifiche tra i tanti piloti e classifiche sempre sub-judice per le tante irregolarità riscontrate. Farà sua la Coppa C.S.A.I e il secondo posto nel Trofeo Cadetti. Passa alle categorie maggiori, Formula 850 e Ford, sino ad arrivare nel 1974 al titolo italiano della Formula 3. Partecipa al campionato europeo di Formula 2, settimo assoluto nel 1977 con una March-BMW. Nell’italiano della stessa categoria è secondo dietro Riccardo Patrese. Nel 1978 ha l’opportunità della Formula 1, prima con l’ATS e poi con la Merzario. Con scarsa fortuna non riuscirà a qualificarsi nei GP dove è impegnato e tornerà alla Formula 2; diventerà istruttore per la C.S.A.I. e apprezzato manager in Formula 3000. Tenterà di diventare costruttore in F1, ma la Riviera, questo il nome scelto per la vettura, non riuscirà mai a scendere in pista per le difficoltà finanziarie legate al progetto.




 

lunedì 1 gennaio 2024

Jacky Ickx, campione non solo a Le Mans


- di MASSIMO CAMPI

- foto di RAUL ZACCHÈ - ACTUALFOTO


Bruxelles, 1° gennaio 1945, in una Europa ancora devastata dalla seconda guerra mondiale nasce Jacques Bernard “Jacky” Ickx. La sua è una famiglia agiata, il padre è un giornalista ed ha anche un fratello, Pascal, pure lui pilota prima di seguire le orme paterne e fare il giornalista. Presto il piccolo Jacky inizia a giocare con i motori. Inizia come molti giovani con le due ruote, ma non sull’asfalto, ma nella nuova disciplina che si va diffondendo in Europa, il Trial dove si fa subito notare.


Come molti il salto dalle due alle quattro ruote arriva presto ed a soli 20 anni, nel 1965, conquista l titolo belga categoria Turismo con una Lotus Cortina e, in coppia con Hubert Hahne la 24 ore di Spa con una BMW 2000 Ti. Passa con disinvoltura dalle ruote coperte alle monoposto dimostrando una grande versatilità e competenza tecnica, qualità su cui costruirà tutta la sua invidiabile carriera.


Jacky Ickx debutta in F1 nel Gran Premio di Germania 1966 alla guida di una Matra di F.2, categoria di vetture ammessa alla gara tedesca per rinfoltire la griglie di partenza, e si rende protagonista di un urto con la Brabham di John Taylor, che morirà circa un mese più tardi a causa delle ustioni procuratesi dall’incendio susseguente all’incidente. L’anno seguente sarebbe salito agli onori della cronaca per le sue prestazioni: nonostante la disparità di potenza (oltre 150 cv di differenza con le più potenti F1), Ickx si qualificò in quarta posizione, mentre la pole fu appannaggio di Jim Clark. Costretto dal regolamento a prendere il via della gara alle spalle dell’ultima qualificata tra le Formula 1, nel corso di una manciata di giri Ickx tornò strepitosamente in quarta posizione. Sfortunatamente, in pieno recupero sul trio di testa, fu fermato da un guasto meccanico, che lo costrinse ad abbandonare la gara, risparmiando una cocente umiliazione ai piloti a bordo delle Formula 1. Finisce la stagione guidando una vera formula 1, la Cooper-Maserati ufficiale, a Monza e negli Usa dove conquista il suo primo punto iridato arrivando sesto.


Nel 1967 nasce il campionato europeo di F.2 e Jacky è al via con una Matra-Cosworth della Tyrrell Racing Organisation. Nella categoria corrono anche i top driver di F.1 che però non possono prendere punti in campionato. Jochen Rindt e Jim Clark, Jackie Stewart sono i mattatori sempre sui gradini più alti del podio, il giovane belga  vince al Nurburgring,  Zandwoort ed a Vallelunga, nella altre gare è spesso a ridosso degli assi, a fine anno conquista il titolo davanti a Frank Gardner e Jean Pierre Beltoise. La grande occasione, che lancerà la sua carriera, arriva proprio nel 1967, durante l’Eifelrennen di F.2 in Germania dove sale sul gradino più basso del podio dietro a Jochen Rindt e John Surtees.




La F.1 si interessa al giovane belga ed il suo nome è segnato su diversi taccuini dei team manager. “Quella gara fu la svolta della mia vita” sono le parole di Ickx “il mio nome iniziò a circolare in diverse squadre e Ferrari mandò Franco Lini, l’allora direttore sportivo, ad Enna per sondare la mia possibilità di correre in F.1 con le rosse. In seguito appresi che Ferrari era in contatto anche con Jackie Stewart. Io avevo solo 22 anni, stavo bruciando le tappe, stavo entrando a fare parte del mondo dei grandi, davanti a Ferrari mi sentivo piccolo, un ragazzino, se la trattativa andava avanti avrei senz’altro detto di si, senza nessuna riserva!”


Jackie Stewart si presentò a Modena con il suo avvocato-manager e relativa lista di richieste. Durante l’incontro con Enzo Ferrari tirò fuori la lista con la lunga serie di richieste, Enzo Ferrari si indispettì subito e rivolgendosi a Lini in Modenese disse “ma cosa vuole sto inglese anche la fabbrica?” Stewart che non parlava italiano capì la parola “inglese” e subito corresse con “Scozzese prego!” Ovviamente la trattativa tra lo scozzese ed il modenese fu subito interrotta e si aprirono le porte per Jacky Ickx che divenne compagno di Chris Amon per il 1968.


La Ferrari 312 ha diversi problemi, ma Ickx riesce a conquistare la sua prima delle otto vittorie in F.1 a Rouen in Francia, nella gara del dramma di Jo Schlesser con la Honda. Una gara sotto la pioggia che subito gli vale la fama di grande pilota sul bagnato. Finisce la stagione quarto in campionato alla spalle di Graham Hill, Stewart e Hulme.

Nel 1969 Ickx abbandona momentaneamente Maranello “Ferrari voleva l’esclusiva ed io desideravo correre altrove, soprattutto con John Wyer con i prototipi. Non trovammo l’accordo, ci separammo, andai alla Brabham, vinsi due gran premi e la prima 24 ore di Le Mans, ma tutto avvenne con la massima cortesia e rispetto tra me ed il commendatore. Le nostre strade si incrociarono nuovamente nel 1970, con la nuova 312B, un grande successo.”


Jacky Ickx porta a Maranello una innovazione, quella del libero professionista, non si sentirà legato ad una squadra, ma corre soprattutto per lui, per vincere. Una grande stagione, quella del Belga, nel 1969, con la Brabham disegnata da  Ron Tauranac vince al Nurburgring ed a Mosport Park in Canada, è secondo in campionato alle spalle di Stewart con la Matra di Ken Tyrrel. Con la Ford GT40 di John Wyer vince a Sebring ed a Le Mans in coppia con Jackie Oliver. La maratona della Sarthe 1969 è il suo grande capolavoro: parte ultimo, per protesta contro la classica partenza a lisca di pesce con i piloti che corrono e saltano nella vettura. La ritiene troppo pericolosa, in genere non vengono mai allacciate le cinture di sicurezza ed il gran casino che si scatena tra le varie vetture con prestazioni molto differenti è estremamente pericolo ed anacronistico per una gara professionale. Ickx attraversa lentamente il rettilineo mentre tutti gli altri corrono e partono all’impazzata, sale lentamente in macchina, si allaccia le cinture e parte, ultimo. Alla sua Ford GT40 non viene accreditata nessuna chance di vittoria contro le nuove potenti Porsche 917 e le affidabili 908. Ma le vetture tedesche hanno problemi, a pochi istanti dallo scadere dei due giri d’orologio si ritrova secondo con la bianca Porsche di Hans Hermann nel mirino, Ickx è velocissimo, intuisce che ce la può fare, la GT40. Ultimo giro, sulle tribune tutti attendono il verdetto finale, da Maison Blanche spunta l’azzurra GT40 davanti alla bianca Porsche. Per Jackie Ickx è un trionfo, per la Porsche un’amara sconfitta. Il belga che aveva passeggiato sulla linea di partenza proprio 24 ore prima, ha dimostrato che non serve correre a piedi per vincere la 24 di auto, ma si deve guidare, e forte!



Ickx è una star, nel 1970 torna al volante delle vetture di Maranello. La nuova 312 Boxer progettata da Mauro Forghieri va forte, ma ha ancora problemi di affidabilità. La prima parte del campionato è disastrosa, il Team compie diversi errori e la 312 non è adeguatamente sviluppata. La Ferrari è ancora una piccola squadra ed è impegnata su troppi fronti con poche risorse umane con conseguenze sulla competitività delle vetture. A Jarama ha anche uno dei peggiori incidenti della sua carriera quando la sua vettura entra in collisione con la BRM di Oliver ed entrambe prendono fuoco. Ickx riesce ad uscire dalle fiamme indenne, ma con un grosso spavento. Nella seconda parte della stagione la situazione migliora, Ickx si riscatta vincendo in Austria, ma Rindt con Lotus ha preso il volo in classifica, fino al dramma di Monza.


Per vincere il mondiale Jacky Ickx deve vincere le tre gare restanti. Centra il primo obiettivo, ma arriva quarto negli Stati Uniti, rendendo inutile il suo trionfo in Messico. Non avesse pagato lo scotto della scarsa competitività iniziale della sua Ferrari, ed alcuni errori grossolani del team, Ickx avrebbe finalmente conquistato il tanto agognato mondiale. Il belga si classificò così per la seconda volta consecutiva al secondo posto alle spalle dell’unico campione postumo di F.1, Jochen Rindt. “Meglio così” è il commento di Ickx “non mi sarebbe piaciuto strappare il titolo a Jochen che lo meritava pienamente”

Con la squadra di Maranello ci rimane altri due stagioni. In F.1 le rosse hanno sempre più problemi, ma con i prototipi di 3 litri Ickx è sempre uno dei protagonisti ed una delle colonne principali della squadra. Nel 1971 Ickx rimane in Ferrari, con grandi speranze per il titolo, ma non va oltre il quarto posto in classifica piloti e una sola vittoria in Olanda. Stessa cosa anche l’anno successivo, con risultati quasi identici. Il belga è un pilota velocissimo, ma spesso è insofferente alle regole del cavallino rampante, non ama passare le giornate in pista a fare test, ed è presto soprannominato “pierino la peste” per il suo carattere non proprio accomodante. Il 1973 fu un anno disastroso, con la Ferrari in crisi tecnica e gestionale, che partecipa raramente con più di una vettura e salta alcuni Gran Premi. Tra il Belga e la Rossa è ormai divorzio “dopo il G.P. di Inghilterra Ferrari decise di ritirare le sue vetture per prendere tempo e ritrovare la competitività. Lo incontrai e gli dissi di fare come voleva, ma io vado a correre al Nurburgring con una McLaren. Ferrari mi lasciò fare, capì, era un grande uomo”.

Sul tracciato dell’Eifel Ickx arriva terzo, conquistando l’unico podio della stagione e dimostrando di essere ancora un valido pilota. Lasciò dunque la Ferrari proprio alla vigilia del riscatto delle Rosse nell’era di Luca Montezemolo e passò alla Lotus, reduce dalla vittoria titolo costruttori con Emerson Fittipaldi (passato ora alla McLaren) secondo e Ronnie Peterson terzo. Purtroppo incappò in un’annata tribolata, con la vettura vecchia (la “72 D” ormai obsoleta e la nuova “76” che si dimostrò fallimentare. Nel 1975 la Lotus prosegue con la vecchia “72” e Jacky lasciò il team a metà stagione.


Le monoposto interessano sempre meno al Belga, che continua a correre con team minori e poche speranze. Alcune gare con la Williams per poi passare alla Ensign, dove rimase fino al 1978 senza mai ottenere punti, partecipando solo ad un limitato numero di eventi. Nel 1979, ultimo anno della sua carriera, corse per la Ligier nella seconda parte della stagione, in sostituzione dell’infortunato Patrick Depailler, ed ottenne tre punti. Finisce così l’avventura con le monoposto, con otto vittorie e due volte vice campione del mondo.

È con le ruote coperte, nella categoria Sport Prototipi che, per circa quindici anni, Jacky ha ottenuto i migliori successi, correndo sempre per scuderie di primo piano. Ickx è stato definito “Monsieur Le Mans”, avendo stabilito un record di 6 vittorie nella 24 Ore , superato solo da Tom Kristensen che ha colto nove centri. Ha inoltre vinto cinque volte la 1000 km di Spa, tre volte sul vecchio pericolosissimo tracciato di 14 km e due sul rinnovato circuito, la 24 Ore di Daytona nel 1972 e la 12 Ore di Sebring nel 1969 e 1972.


Dopo la prima vittoria nel 1969 Jacky tornò al successo a le Mans nel 1975 per la prima di tre vittorie consecutive della maratona: la prima con la Gulf-Mirage e le altre due con la Porsche 936. Con la Porsche inizia un grande sodalizio, Ickx diventa il principale pilota di riferimento per la casa tedesca e la collaborazione porterà parecchi frutti per entrambi. Dopo un secondo posto nel 1980, anche nel 1981 vince a Le Mans sempre su Porsche 936, in una versione aggiornata che portava al debutto in gara il nuovo sei cilindri raffreddato ad acqua che equipaggerà le porche del futuro gruppo C. Intenzionato a ritirasi, venne convinto dalla Porsche a restare per affidargli lo sviluppo della “956”, la nuova arma della casa per le gare di durata. Con quella vettura Ickx vince nel 1982 la sua sesta 24 Ore di Le Mans e conquista il Campionato mondiale Endurance 1982 e 1983. Con la Porsche continua a correre fino al 1985, anno in cui, durante la gara di Spa, è coinvolto nell’incidente che causerà la morte di Stefan Bellof. Al termine della stagione si ritira dalle competizioni.


Contraddistinto da un’innata capacità d’analisi, da una versatilità ineguagliata che gli ha permesso, nel corso della sua lunga carriera, di trionfare in ogni categoria in cui abbia corso, Ickx è stato nominato “Driver del Secolo”. Nessun altro pilota, infatti, può vantare un palmares tanto completo, che include vittorie in Formula 1, Sport, Prototipi, Turismo e Granturismo, Rally-Raid e motociclismo. Jacky Ickx è noto soprattutto per la sua elevata versatilità e polivalenza, che gli hanno permesso di vincere in discipline diverse. Oltre ad essere stato per due volte vice campione mondiale  in F.1, campione europeo in F.2, campione mondiale Endurance per due anni consecutivi, è stato campione della serie CanAm, nel 1979 con la Lola T333 CS Chevrolet del Team Haas , mentre nel 1983 ha vinto la Parigi-Dakar con una Mercedes 280G nel 1982 in coppia con Claude Brasseur.




Ickx è stato spesso criticato, nei primi anni della sua carriera, come pilota dal carattere spigoloso e presuntuoso. Odiava le sessioni di test, soprattutto a Fiorano, il circuito della Ferrari e con la stampa non sempre c’erano buoni rapporti. In parte la sua scarsa propensione ai test ed alcune prese di posizione sullo sviluppo della monoposto hanno minato le probabilità di essere campione mondiale, ma il Drake ha comunque sempre espresso un buon giudizio sulle doti del belga “Un connubio di ardimento e calcolo. Nel primo anno maturò un’esperienza che prometteva grandi frutti, poi per quattro anni abbiamo inseguito il titolo mentre ci venivano attribuite polemiche spesso inconsistenti. Al di là del funambolismo giornalistico. Qualche suo atteggiamento, che gli valse tra i miei collaboratori l’appellativo di Pierino il terribile non mi ha cancellato il ricordo di un ragazzo cresciuto in fretta e l’impressione di quella sua guida fine e temeraria sotto la pioggia”.


Il suo primo matrimonio con Catherine Blaton destò clamore in Belgio. Era nipote del pilota belga “Beurlys” Blaton ed erede di un grande patrimonio immobiliare. Dalla loro unione nacque Vanina, anche lei seguì le orme del padre.

Successivamente Ickx è tornato in Formula 1 nel ruolo di direttore di gara. In queste vesti suscitò forti polemiche nel 1984 la decisione di sospendere per pioggia il Gran Premio di Monaco al 31º giro, proprio nel culmine della lotta tra Alain Prost e Ayrton Senna che si contendevano la prima posizione. In quell’occasione Ickx venne accusato di voler favorire Prost ai danni del brasiliano, anche a causa del suo rapporto professionale con la Porsche, che forniva anche il motore alla McLaren. Attualmente si vede in varie manifestazioni d’epoca come la Mille Miglia e il Monaco Historique in veste di testimonial.

sabato 23 dicembre 2023

Michele Alboreto, dalla F. Monza alla F. 1


di MASSIMO CAMPI
Foto di RAUL ZACCHE' - ACTUALFOTO

Non ha vinto il mondiale, ma il ricordo di Michele è ancora forte tra gli appassionati, chi lo ha conosciuto lo ricorda ancora per le sue doti, come pilota, ma soprattutto come uomo. Per iniziare a correre, a dare sfogo alla sua passione, aveva dovuto fare molti sacrifici, poi ripagati da una straordinaria carriera, ma come persona era sempre disponibile, facendo della gentilezza una delle sue migliori doti anche fuori dall’abitacolo.

Michele Alboreto è nato il 23 dicembre 1956, a Rozzano alle porte di Milano, ed ha rappresentato un grande esempio di determinazione, passione e tanta voglia di fare e di dimostrare. Alboreto, pur non essendo mai diventato campione del mondo, ed in quel lontano e sfortunato 1985 con la Ferrari lo avrebbe sicuramente meritato, ha rappresentato una figura emblematica per tanti giovani, e per tanti tifosi. La grande forza di Alboreto è stata quella di essere un uomo, ancor prima che essere un pilota. Era considerato un pilota dal piede pesante, ma soprattutto con una testa pensante, che sapeva sempre fare funzionare cercando di cogliere il migliore risultato possibile in ogni occasione. La sua è stata una carriera molto importante, ed è stato l’ultimo che è riuscito a realizzare il sogno del pilota italiano al volante di una rossa.



Enzo Ferrari non voleva italiani, non voleva ulteriori polemiche in caso di incidenti o di lutti, ma dopo tanti anni aveva voluto Alboreto, ed il milanese è stato un pilota importante nella storia della rossa. E’ arrivato nel 1984 e ci è restato fino al 1988, quando è morto il Drake. Se ne è andato da Maranello in silenzio, senza fare polemiche, anche se avrebbe avuto molto da recriminare, soprattutto dal punto vista tecnico e sportivo. Ma Michele Alboreto non è stato solo un campione con le vetture di Maranello, ha corso e vinto anche con le Porsche.
Sentir parlare Alboreto, durante una intervista o una conferenza stampa, aveva un significato particolare: mai banale, sempre cercando il perché delle cose e delle situazioni, a volte sarcastico nei suoi giudizi, a volte con una vena polemica, ma sempre garbata. Prima di essere un pilota era un uomo, sempre disposto a mettersi in discussione, ed a costruire un futuro.
La vittoria più grande di Alboreto è stata alla 24 Ore di Le Mans, nel 1997, con la TWR Joest, un risultato che lo lancerà nella grande squadra Audi di Wolfgang Ullrich quando parte l’avventura del team tedesco.

La determinazione e la passione sono sempre state due costanti nella sua carriera: aveva ancora tanta voglia di correre, di ottenere ancora dei risultati come la vittoria a Le Mans e quella di Sebring del 2001, la sua ultima. Voleva conquistare ancora un’altra vittoria sulla Sarthe, proprio con quell’Audi che lo ha tradito.
Il suo casco era facilmente riconoscibile: blu intenso con la striscia gialla, gli stessi colori di Ronnie Peterson, l’idolo della sua gioventù, un pilota che come Michele non è riuscito a conquistare l’alloro mondiale, ma il cuore di molti tifosi, per come guidava in pista, per come sapeva essere un signore delle piste, proprio come Alboreto.

Michele Alboreto era questo, e tanto altro. Con lui è anche finita un’epoca, nella quale i piloti iniziano a correre per merito e arrivano in alto, non per la valigia, ma per le proprie qualità, velocistiche e professionali. Riescono a fare sognare le folle al volante di una rossa e continuano a fare i professionisti ad alto livello per molte stagioni ancora, senza mai arrendersi. Ma soprattutto finisce anche un’epoca dove i piloti sanno essere anche uomini, non solo delle star o dei semplici robot al servizio degli sponsor, e vengono apprezzati anche e soprattutto per questo.

Oggi avrebbe compiuto 67 anni se la sua vita non fosse stata prematuramente spezzata il 25 aprile 2001, quando la sua Audi, durante un test al Lausitzring ha preso il volo mettendo fine ad una storia difficilmente ripetibile.




venerdì 22 dicembre 2023

La Wolf WR1 vittoriosa al debutto con Jody Scheckter.



di Massimo Campi – immagini ©Raul Zacchè

 

Appassionato di auto da competizione, Walter Wolf, un magnate canadese del petrolio appassionato di vetture sportive, conosce Gian Paolo Dallara che a sua volta lo mette in contatto con Frank Williams. L’ingegnere di Varano de Melegari aveva già collaborato alla progettazione della monoposto De Tomaso che era stata gestita da Williams nel 1970. Dallara, inoltre, era stato uno dei progettisti della Lamborghini Miura e Walter Wolf che nel 1975 aveva già acquistato il 51% delle azioni della Lamborghini diventa anche socio al 60% della neonata Frank Williams Racing Cars che si appresta a correre nella massima formula con una sua vettura. L’idea è quella di portare il marchio di Santagata nella massima formula, ma gli altri azionisti della casa emiliana bocciano il progetto ed il Team Williams acquista delle Hesketh 308C, assieme ad altro materiale dal team del Lord Inglese che stava abbandonando l’attività. Assieme a vetture ed attrezzature, arrivano alla struttura di Frank Williams e Walter Wolf alcuni meccanici ed il giovane progettista Harvey Postlethwaite.

In seguito Walter Wolf prende sempre più potere nella squadra, Frank Williams e Patrick Head sono messi in un angolo e la Walter Wolf Racing inizia ufficialmente ad esistere dal 5 luglio 1976 debuttando al GP di Spagna con Jacky Ickx e Michel Leclère alla guida delle vetture. Intanto debutta anche Peter Warr, come direttore sportivo che proveniva dalla Lotus.




Per la stagione 1977 Walter Wolf realizza la sua prima vettura completa, progettata da Postelthwaite. La Wolf WR1, venne presentata l’8 novembre 1976 presso il Royal Lancaster Hotel di Londra. È una monoposto con monoscocca di alluminio su cui è montato il motore Ford Cosworth DFV, unito ad un cambio Hewland, mentre le gomme sono fornite della Goodyear. Come unico pilota delle scuderia c’è il sudafricano Jody Scheckter, proveniente dalla Tyrrell dove aveva cercato di sviluppare la P34 a 6 ruote. Il sudafricano, dal carattere schivo, è visto da molti come un futuro campione del mondo, veloce e roccioso, aveva già disputato 51 gran premi, vincendone 4, con 1 pole e 3 giri veloci.

Tra i record di Walter Wolf c’è quello di essere riuscito ad utilizzare la pista di Fiorano della Ferrari per alcuni test; è la prima volta che il Drake concede l’ingresso ad un team esterno di Formula 1. Il debutto avviene nella prima gara stagionale in Argentina, e Jody Scheckter sale sul gradino più alto del podio al debutto, un risultato nella storia ottenuto solo dall’Alfa Romeo nel 1950 e dalla Mercedes nel 1954.




Il 9 gennaio 1977 la Wolf WR1 di Jody Scheckter è undicesima in griglia sul Circuito di Buenos Aires, alla partenza la testa della gara venne presa dalla Brabham di John Watson davanti a Niki Lauda, Mario Andretti, Jochen Mass e Carlos Reutemann. Scheckter risale diverse posizioni, approfitta delle varie noie meccaniche e delle uscita di pista di quelli davanti ed al 42º giro quando Watson fu costretto al ritiro per la rottura del semiasse il sudafricano si ritrova secondo dietro la Brabham di Carlos Pace. La Brabham ha problemi alle gomme, la Wolf invece si trova a suo agio sull’asfalto argentino e Scheckter infila il rivale brasiliano al 47º giro al termine del rettifilo che conduceva alla parte più lenta. Dopo sei giri la Wolf WR1 transita per prima sotto la bandiera a scacchi davanti alla Brabham di Pace ed alla Ferrari di Carlos Reutemann. Dopo quel successo Frank Williams e Patrick Head abbandonarono la scuderia per fondare la Williams Grand Prix Engineering ed iniziare la loro nuova storia che li porterà ad importanti successi mondiali.

La Wolf WR1 si dimostra molto competitiva nella prima parte della stagione 1977, Scheckter è secondo in Sudafrica e terzo a Long Beach ed in Spagna. Ritorna sul gradino più alto del podio nel GP di  Montecarlo dominando per tutti i 76 giri di gara e conquistando la centesima vittoria per il Ford Cosworth DFV nella massima formula. La terza vittoria stagionale arriva nel GP del Canada a Mosport, intanto vengono realizzate le nuove WR2 e WR3, i telai successivi dopo la prima WR1, praticamente identici con solo alcuni dettagli aggiornati.

La stagione 1977 della Wolf si conclude con 55 punti conquistati, ed il quarto posto nella classifica costruttori. Jody Scheckter risulta secondo in quella piloti dietro alla Ferrari di Niki Lauda.

La stagione 1978 riparte con la solita monoposto, ma non vede risultati all’altezza di quella precedente. Walter Wolf fa realizzare la nuova WR5 ispirata alla Lotus 78 una monoposto ad effetto suolo. A fine stagione Jody Scheckter firma il contratto con Maranello ed abbandona il team anglo-canadese per la Ferrari dove andrà a conquistare il suo titolo mondiale piloti.


giovedì 16 novembre 2023

16 novembre 1929, nasce la Scuderia Ferrari


di Massimo Campi

Nell'autunno del 1929, il futuro Drake stava lavorando ad un suo nuovo progetto: quello di una squadra corse. Da quando aveva rinunciato a fare il pilota si vedeva sempre più nelle vesti di organizzatore, di “agitatore di uomini” e creare una sua struttura era ormai diventato il sogno ricorrente. Alcuni piloti paganti, i cosiddetti “gentleman driver”, erano disponibili a correre con auto competitive; gli organizzatori stanziavano sostanziosi ingaggi pur di avere piloti celebri che attirassero il pubblico, in compenso l’Alfa Romeo aveva già grossi problemi interni e non era in grado di fornire una adeguata assistenza ai clienti sportivi.
Quel progetto si poteva concretizzare con l’Alfa Romeo che avrebbe fornito le vetture e la Pirelli per le
gomme. Creare una struttura esterna che sollevasse la casa del Portello dagli oneri e dai costi organizzativi sarebbe stata una idea molto interessante e le prime adesioni vennero dai fratelli Alfredo e Augusto Caniato, a cui era appena stata venduta una Alfa Romeo 6C 1500 Corsa . I due gentleman-driver di Ferrara erano disposti a finanziare l’impresa ed a loro si unì Mario Tadini, un facoltoso pilota bolognese. Il primo accordo fu fatto la sera del 12 ottobre 1929, alla cena di gala per festeggiare il record mondiale di velocità conquistato da Baconin Borzacchini sulla Maserati Tipo V4 . 
Il progetto era partito, Enzo Ferrari metteva la sua esperienza, i contatti con l’Alfa Romeo e la Pirelli per avere macchine e gomme, i Caniato e Tadini erano pronti a finanziare la futura squadra corse.

L’avvocato Enzo Levi fu chiamato per redigere l’atto costituente che venne formalizzato il 16 novembre dal notaio Alberto Della Fontana e omologato dal tribunale di Modena il 29 novembre 1929. La nuova “Società Anonima Scuderia Ferrari” era nata e per la sede fu scelta una piccola struttura a Modena in Via Trento e Trieste. Enzo Ferrari sarebbe stato nominato direttore e Mario Tadini presidente della scuderia modenese che aveva raccolto, tramite una serie di azioni, un capitale sociale di 200.000 lire.


L’Alfa Romeo gradì subito la squadra corse, fornendo il team modenese, in questo modo aveva la possibilità di partecipare a più corse, con una ottima pubblicità per il marchio milanese, senza dovere affrontare tutti gli oneri della logistica ed organizzazione sul campo di gara. L’esordio della Scuderia Ferrari avvenne il 26 marzo 1930 alla Mille Miglia con tre Alfa Romeo 6C 1750 condotte da Luigi Scarfiotti, Eugenio Siena e Mario Tadini. Nessuno dei tre piloti raggiunse il traguardo, ma Enzo Ferrari, già abile commerciante ed organizzatore, convinse i vertici del Portello a far correre le Alfa Romeo ufficiali con la nuova scuderia modenese. Nel 1931, oltre ai vari gentleman driver, con alcune Alfa Romeo della Scuderia Ferrari correvano anche piloti del calibro di Tazio Nuvolari e Luigi Fagioli e due anni dopo l'Alfa Romeo si ritirò dalle competizioni, cedendo le sue vetture da competizione ad Enzo Ferrari che continuò a farle correre cogliendo importanti vittorie sulle più importanti piste europee.


martedì 31 ottobre 2023

Derek Bell, una leggenda a Le Mans



- di Massimo Campi

- Immagini © Raul Zacchè/Actualfoto; Massimo Campi

Derek Bell nasce in Inghilterra a Pinner il 31 ottobre del 1941. Il debutto come pilota avviene nel 1962, con una Lotus Seven della scuola di Jim Russel. Ben presto corre in monoposto e tra il 1965 ed il 1967 conquista ben 13 vittorie in F.3 che gli aprono la via nel 1968 alla F.2 dove corre con una Brabham BT23 Ford. Bell è un giovane promettente ed entra a far parte della squadra ufficiale Ferrari nella formula cadetta assieme ad Andrea De Adamich, Tino Brambilla e Clay Ragazzoni. In F.2 corre fino al 1973, conquista una sola vittoria a Montjuich Park nel 1970 con una monoposto di “Sir” Jack Brabham, ma corre anche con le vetture di John Surtees. Il debutto nella massima formula avviene su una Ferrari 312, nel 1968 a Monza, ma non vede la fine della gara e si deve ritirare. Nella sua carriera disputa nove gran premi tra il 1968 ed il 1974, conquistando solamente un punto mondiale nel 1970 nel G.P. degli Stati Uniti a Watkins Glen, al volante di una Surtees TS7-Ford. Nella massima formula corre anche con una Mc Laren, con la Brabham e disputa anche due gare da pilota ufficiale con la Tecno dei fratelli Pedrazzani.

La carriera di Derek Bell ha una svolta importante quando inizia a correre con le ruote coperte. John Wyer nel 1971 lo alterna a Jo Siffert sulla Gulf-Porsche 917 e la prima vittoria in una gara mondiale arriva alla 1000 Km di Buenos Aires, la gara dove si consuma il dramma di Ignazio Giunti.

Finita l’avventura Porsche, John Wyer nel 1972 crea la Mirage e Derek Bell è uno dei principali piloti della scuderia britannica. Corre in coppia con Carlos Pace e Mike “The Bike” Hailwood con il quale conquista nel 1973 la vittoria nella 1000 Km di Spa. Nel 1974 è pilota ufficiale dell’Alfa Romeo, che corre nel mondiale Marche con la 33TT12, ma a Le Mans, lasciato libero dalla squadra italiana, corre con la Mirage in coppia con Jacky Ickx e vince la sua prima maratona della Sarthe. 

Derek Bell a Le Mans è considerato una leggenda vivente: ha debuttato nel 1972 giungendo ottavo con una Ferrari 365 GT ed il suo palmares è uno dei più ricchi nella storia della corsa. Sono ben 26 le edizioni che lo hanno visto al via, ed in questa speciale classifica è superato solamente da Henry Pescarolo e Bob Wollek, ma è tra i primi in assoluto in quanto a vittorie, ben cinque, superato nella storia solamente da Tom Kristensen con nove e Jacky Ickx che ne conta una più di lui.

La coppia Ickx-Bell è stato uno dei sodalizi più vittoriosi nella storia della 24 Ore di Le Mans con ben tre affermazioni: oltre a quella del ’73 con la Mirage-Ford, l’inglese ed il belga sono saliti nuovamente sul gradino più alto del podio con la Porsche 936 nel 1981 ed ‘82. La Porsche è la casa con la quale Derek Bell ha avuto più affermazioni e con la 962 è giunto nuovamente primo a Le Mans nel 1986 ed in coppia con Hans Stuck ed Al Holbert nel 1987, completando il poker di vittorie. Derek Bell è stato per due volte campione del Mondo per la categoria Prototipi, nel 1985 (in coppia con Hans Stuck) e nel 1986, entrambe le volte al volante delle vetture ufficiali Rothmans Porsche ed è terzo nella speciale classifica dei piloti più vittoriosi nel mondiale sport prototipi con ben 21 affermazioni, superato solamente da Jacky Ickx e Jochen Mass, ma nel palmares vanno anche sommate ben 18 vittorie nella seria americana Imsa, di cui è stato vice campione nel 1985, sempre al volante di una Porsche.
La carriera agonistica di Derek Bell continua negli anni ’90 sempre al volante di vetture a ruote coperte, dove conta molto la sua lunga esperienza. Corre con vetture GT1 con i migliori team, alternando Le Mans, dove partecipa per l’ultima volta nel 1996 giungendo sesto con Grouillard e Wallace con gare anche oltre oceano dove corre con Nissan, Spice e Porsche.

In terra americana il nome di Derek Bell figura ben tre volte in cima alla classifica della gara più classica: la 24 ore di Daytona che ha vinto nel 1986, 1987 e 1989, in coppia con piloti del calibro di Al Unser Jr, Bob Wollek, Al Holbert e John Andretti sempre al volante di vetture di Stoccarda. Ed è proprio nella 24 ore della Florida che troviamo per l’ultima volta Derek Bell in una classifica: nel 1997, quando giunge settimo assoluto con la Ferrari 333SP del Team Momo, ponendo fine ad una invidiabile e longeva carriera agonistica, con vetture sempre di alto livello.





 

venerdì 20 ottobre 2023

L’ultima corsa di Gunnar Nilsson


di Massimo Campi - Immagini ©Raul Zacchè/Actualfoto

Il destino lo ha fermato a soli 30 anni, e non per un incidente in pista, come altri piloti, ma per un male incurabile. Stiamo parlando di Gunnar Nilsson, svedese, come il suo grande amico Ronnie Peterson, e se ne è andato a poco più di un mese dalla sua scomparsa.
Era il 20 ottobre di quel tragico 1978, una delle sue ultime comparse pubbliche fu proprio ai funerali dell’amico scomparso a Monza, era debilitato dalle cure e disse ai giornalisti di voler tornare presto in pista al posto di Ronnie, per tenere alto il nome della Svezia nel mondo delle corse.
Gunnar Nilsson non corrispondeva all’immagine del pilota guascone e playboy, tutto pista e modelle. Era un ragazzo semplice ed un pilota serio e coscienzioso. Invitava a casa sua scrittori, artisti e scienziati: il suo salotto era aperto alla cultura. Parlava perfettamente inglese, francese e tedesco, oltre allo svedese. Era particolarmente legato alla madre ed alla sua ragazza.
Era nato a Helsingborg, nel sud della Svezia, il 20 novembre 1948, da una famiglia agiata, anche se il padre Arvid morì quando aveva solo quindici anni, lasciando però abbastanza denaro per dare sfogo alla passione di Gunnar per le corse di auto.
Dopo gli esordi in Formula Atlantic e poi in Formula 3 venne notato da Colin Chapman, che lo volle come seconda guida a fianco dell’esperto Mario Andretti.
Il debutto in Formula 1 nel Gran Premio del Sudafrica, del 1976 con la Lotus 77. Aveva il numero 6, con la livrea nero ed oro dello sponsor JPS, si dovette fermare per un problema meccanico ma conquistò il suo primo podio due mesi dopo, a maggio, nel GP di Spagna dove arrivò terzo dietro a James Hunt e Niki Lauda.

Nella stagione 1976 Gunnar Nilsson salì ancora una volta sul podio nel GP d’Austria e concluse la stagione al decimo posto del Mondiale con 11 punti, ma fu anche il primo collaudatore della Lotus 78 ad effetto suolo. Il 1977 fu l’anno della sua consacrazione. Sempre in coppia con Andretti, la nuova monoposto consentì a Gunnar di vincere il suo primo ed unico GP a Zolder, in Belgio, il 5 giugno 1977. Sotto una pioggia torrenziale, al primo giro Mario Andretti e John Watson entrarono in collisione tra loro lasciando via libera a Nilsson che tagliò il traguardo davanti a Lauda ed a Ronnie Peterson.
Il Gp del Giappone, il 23 ottobre 1977 è l’ultima gara di Nilsson. Ha già in tasca il contratto con la Arrows, per il 1978, doveva essere il compagno di Patrese, mentre al suo posto, in Lotus, ritorna Ronnie Peterson.
La corsa, funestata da un incidente dove muoiono due spettatori, viene vinta da James Hunt. Gunnar Nilsson si ritira al 63° giro per un problema al cambio. 
Poco dopo il Giappone i medici gli diagnosticarono un tumore e Gunnar dovette sottoporsi alle chemioterapie in un ospedale di Londra. L’uomo pieno di vita, esuberante, giovane, capelli sempre al vento, era stato aggredito dal cancro proprio quando cominciava a farsi un nome. Il suo peso scese a 47 kg, i suoi capelli caddero. Lottò con molto coraggio, seppur inutilmente, per mantener fede alla sua promessa di ritornare a correre per un anno. Pochi giorni dopo la partecipazione al funerale di Peterson, tornato a Londra, ebbe un collasso. I
medici non gli nascosero che era alla fine. E allora, di fronte alla morte, si rivelò tutta la grandezza dell’uomo. Rifiutò la morfina e tutto quanto gli avrebbe potuto attenuare il dolore. Aveva ormai un solo pensiero: raccogliere soldi per istituire un fondo per lo studio del cancro. Per raccogliere il denaro fece appello agli amici. Quelli delle corse e quelli che aveva incontrato nella sua vita breve ma intensa: gli Abba, Bjorn Borg, Ingmar Stenmark e tanti altri. E gli amici accorsero mentre lui continuava a scrivere: «Come sai, caro amico, è da un anno che combatto contro il cancro. Ora mi è stato detto che non c’è più niente da fare, che è finita. Vorrei però vincere la mia ultima corsa: quella contro il male che domani o dopo attaccherà altra gente. Per favore, amico mio, aiutami. Invia ai miei medici un contributo per gli studi sul cancro. Aiutami a vincere questa mia ultima corsa».
Poco prima di entrare in coma, il 20 ottobre 1978 nell’ospedale di Charing Cross a Londra, ha afferrato la mano della madre e di Kristine andandosene così, semplicemente.
La Fondazione che porta il suo nome, la Gunnar Nilsson Cancer Foundation, istituita nel 1979 ha finanziato decine di progetti ed iniziative per lo studio e la cura del cancro.

venerdì 6 ottobre 2023

La Lancia Rally 037 conquista il quinto Mondiale Costruttori al Rally di Sanremo 1983.



Torino, 6 Ottobre 2023 - “La Lancia Rally 037 rappresenta appieno l’animo del marchio, fatto di forme geometriche radicali, unite a un design elegante ed esclusivo, che danno vita a una vettura sempre pronta a superare ogni ostacolo. Una caratteristica che le ha permesso di entrare nell’immaginario collettivo. Il successo ottenuto esattamente quarant’anni fa resta ancora oggi un momento storico per il Rally: una vera e propria impresa che ha consacrato il modello nell’Olimpo delle vetture immortali. Non a caso, la Lancia Rally 037 è una delle nove vetture che ispireranno i modelli futuri nel nostro percorso di Rinascimento.” ha dichiarato Luca Napolitano, CEO del marchio Lancia.

Il 7 ottobre 1983 rappresenta davvero una data memorabile per il marchio Lancia, un giorno incancellabile negli occhi e nel cuore di tutti gli appassionati delle corse: la Lancia Rally 037 trionfa infatti al Rally di Sanremo e si aggiudica, con due gare d’anticipo, il quinto Campionato Mondiale Costruttori della sua storia. Un risultato strepitoso per una tappa interamente “firmata” dal marchio italiano, che contava ben quattro vetture nelle prime cinque posizioni finali: con Markku Alen, Walter Röhrl e Attilio Bettega sul podio, ed un giovanissimo Miki Biasion al quinto posto alla guida di una Lancia Rally 037 - Jolly Club.

Una vera e propria impresa, considerando i valori tecnici e la potenza dei modelli in gara: a differenza delle sfidanti, che potevano già contare su vetture a trazione integrale, la Lancia Rally 037 era dotata di trazione posteriore. Non a caso, a distanza di quarant’anni, si tratta di un risultato che non si è mai più ripetuto nella storia delle corse.
La vittoria di Sanremo sancisce infatti l’inizio di un periodo d’oro per il modello: in pochissimo tempo, la Lancia Rally 037 è in grado di incantare milioni di tifosi in tutto il mondo e di conquistare, oltre al Mondiale Costruttori, anche il secondo posto nel Mondiale Piloti con Walter Röhrl e il Campionato Europeo ed Italiano con Miki Biasion, che da lì a poco avrebbe gareggiato anch’egli sotto le insegne della scuderia ufficiale Lancia Martini.

Quella della Lancia Rally 037 è una storia di eccellenza dell'automobilismo italiano.
L’esordio ufficiale era avvenuto nel 1982, in occasione della 59° edizione del Salone dell’automobile di Torino, con la versione stradale. Caratterizzata da 205 cavalli, un carburatore doppio corpo e sovralimentazione tramite compressore volumetrico, la vettura era stata progettata in previsione dell’entrata nel mondo del rally.
Sono 200 gli esemplari prodotti per ottenere l’omologazione nella categoria rally Gruppo B.
La Lancia Rally, meglio conosciuta con la sigla di progetto “037”, è in realtà una sportiva pura in ogni suo dettaglio con forme “funzionali” e decise, sia nel frontale che nel posteriore, e un “calice” dalle linee spigolose che ne fanno un simbolo delle competizioni Rally. È chiara la derivazione dalla Beta Montecarlo, una compatta coupé, a motore centrale e dall’impronta sportiva tipica degli anni 70. A partire da questa base, tutto nella Lancia Rally 037 contribuisce a valorizzare l’animo sportivo: lo stile aggressivo, il carattere brutale ed efficiente. Gli interni, minimalisti e razionali, sono la quintessenza della competizione, così come alcune “appendici” aerodinamiche sul montante e sulla coda, tra cui un vistoso spoiler posteriore che la rende ancora più performante.

Lo spirito indomito della sua originale struttura mista viene “vestito” di classe, grazie ad una carrozzeria aggressiva ed elegante al contempo, in grado di conferire un importante carico aerodinamico verso il suolo. Per raggiungere la massima efficienza, viene realizzata in poliestere con rinforzi in vetroresina, mentre i due leggerissimi cofani, motore e baule, possono essere smontati integralmente.
Proprio questo equilibrato connubio tra due anime così differenti, già caratteristico della leggendaria Stratos, fa di Lancia Rally 037 una delle nove vetture iconiche della storia del Brand che ne hanno ispirato i modelli futuri, a cominciare da Lancia Pu+Ra HPE, il manifesto del marchio per i prossimi 10 anni: una concept car 100% elettrica che incarna la visione del marchio in termini di design, interior home feeling, sostenibilità, elettrificazione ed effortless technology. Nel Concept Lancia Pu+Ra HPE, infatti, si ritrova un design con un gioco costante tra purezza e radicalità che rimanda fortemente all’essenza della Lancia Rally 037.


François Cevert, la corsa spezzata


di Massimo Campi
foto di ©Raul Zacchè/Actualfoto

Era il 6 ottobre del 1973 ed in un assolato pomeriggio d’autunno se ne andava François Cevert, uno dei più promettenti piloti del momento. 
Watkins Glen, Stato di New York, è sabato pomeriggio, ultimo turno di qualifiche del Gran Premio degli Stati Uniti. Sulle piante attorno al circuito le foglie mostrano già i colori dell’autunno. Il suo caposquadra Jackie Stewart è già campione del mondo, il francese non deve correre più per coprirgli le spalle, può correre per se stesso, per vincere, proprio qui in America dove ha colto l’unico successo in F.1 proprio due anni prima. Sono le 11,54, mancano sei minuti al termine delle prove. Francoise è determinatissimo, vuole dimostrare al mondo che è degno del sedile di caposquadra alla corte di Ken Tyrrell. Vuole conquistare la pole position, vuole la vittoria e la seconda piazza in campionato. Ronnie Peterson, quello svedese che va come il vento, è il suo principale avversario con la nera Lotus 72. Si guardano negli occhi, lui ed il suo capo meccanico, Il messicano Ramirez – “Jo, ho la macchina n°6, la macchina è la 006, il Cosworth n°667, oggi faccio la pole, me lo sento. Ciao, vado!”. Ingrana la prima, molla la frizione e via nella pit lane. Jo Ramirez lo segue con la coda dell’occhio, sa che François ce la può fare, ma un minuto dopo non c’era già più.

Albert François Cevert Goldenberg nasce a Parigi il 25 febbraio 1944 durante l’occupazione nazista. Il padre, Charles Goldenberg, era un ebreo nato in Russia e fuggito con la famiglia in tenera età per scampare alle sommosse popolari antisemite del regime comunista. Il padre, di cognome Goldenberg, a Parigi lavora come gioielliere ed agli inizi degli anni trenta si sposa con la parigina Huguette Cevert, da cui ebbe tre figli. Gli ultimi due nacquero in una Parigi sconvolta dall’invasione nazista e per evitarne la persecuzione fu loro dato il cognome della madre, essendo quello del padre di origine chiaramente ebraica. Tra essi vi era anche François. La famiglia Goldenberg-Cevert è benestante, Francoise frequenta le migliori scuole della capitale, ha un’ottima istruzione ed è anche un buon pianista classico.

L’interesse verso i motori di Cevert nasce grazie alla sorella maggiore Jacqueline, la quale si fidanza con Jean-Pierre Beltoise (in seguito i due si sposeranno) che allora correva in moto. Nel 1964 Beltoise coglie un buon sesto posto nella 50cc del mondiale di motociclismo, ma ben presto passa alle quattro ruote, Cevert, oramai contagiato dalla passione per i motori, decide nello stesso anno di iscriversi alla scuola di automobilismo presso il circuito di Montlhéry.
Il giovane Francois va forte e nel 1966 conquista il prestigioso Volant Shell, battendo un’altra giovane promessa dell’automobilismo francese, Patrick Depailler. Il premio è un’intera stagione sponsorizzata nel Campionato Francese 1967 di Formula 3 al volante di un’Alpine-Renault. La monoposto vincente del momento è la Tecno e l’anno successivo si lega al Team dei fratelli bolognesi con cui vince il titolo nazionale.
Nella stagione 1969 la Tecno promuove Cevert in Formula 2. Debutta al III° Deutschland Trophäe all’Hockenheimring piazzandosi nono. Il resto della stagione è in crescendo e termina con il terzo posto assoluto in campionato, con una vittoria anche nel Gran Premio di Reims.

Continua in F2 nel 1970 con la Tecno, ma la F.1 è alle porte. Varie scuderie hanno già notato il talentuoso francese e il sogno di approdare nella massima categoria automobilistica si concretizza poco prima di metà stagione. Il connazionale Johnny Servoz-Gavin, che corre per il team Tyrrell, decide improvvisamente di ritirarsi dopo il Gran Premio di Monaco del 1970. Venutasi così a trovare senza un pilota, la Tyrrell sceglie proprio Cevert per rimpiazzare Servoz-Gavin. È lo stesso Stewart a segnalare Cevert a Ken Tyrrell dopo che il 25 maggio dello stesso anno aveva lottato con lui durante il XVIII° London Trophy di Formula 2 al Crystal Palace. Cevert è anche sostenuto da Francoise Guiter, il patron della Elf che sponsorizza il team del boscaiolo. In Francia è polemica, la stampa ritiene che ci siano altri giovani francesi che meritano quel posto, ma ben presto Cevert smentisce tutti, anche le iniziali perplessità di Ken Tyrrell, conquistando ben presto la fiducia di tutti.

L’esordio sulla March del team Tyrrell avviene il 21 giugno 1970 al Gran Premio d’Olanda sul circuito di Zandvoort. La corsa si chiude per un guasto al motore al 31º giro. Il primo punto mondiale arriva il 6 settembre a Monza. Cevert conquista la fiducia di Ken Tyrrel che lo conferma per le stagioni successive. Stewart è l’indiscusso pilota n°1 del team che si appresta a conquistare il suo primo titolo mondiale come costruttore. Tra i due piloti nasce subito una profonda amicizia: lo scozzese diventa il “maestro” di Cevert, dando ripetuti consigli ed aiutandolo non poco a maturare le proprie innate qualità. La nuova Tyrrell con il DFV Cosworth ufficiale è la vettura da battere per la stagione 1970, il compito del francese è quello di coprire le spalle a Jackie per la conquista del titolo e Francois non delude le aspettative.

Data la vittoria anticipata del titolo da parte di Stewart, per Cevert si presenta l’occasione di mettersi in mostra nelle tre gare conclusive della stagione. Il 5 settembre, nel Gran Premio d’Italia a Monza, il francese coglie un terzo posto, seguito poi dalla sesta piazza nel Gran Premio del Canada a Mosport Park due settimane dopo. La stagione si chiude con il Gran Premio degli Stati Uniti, a Watkins Glen il 3 ottobre. Dopo aver superato Denny Hulme, Stewart prende la testa, ma al 14º giro lo scozzese lascia passare Cevert, nel frattempo portatosi in seconda posizione. Il francese non perde più il comando e ottiene la prima vittoria della sua carriera, staccando Jo Siffert su BRM e Peterson di oltre 40 secondi. La gioia di Cevert è ovviamente immensa e il pilota riceve in premio 50.000 dollari. Con lui festeggia l’intera Francia, dal momento che Cevert è il secondo francese che riesce a vincere un Gran Premio nella storia della Formula 1 dopo Maurice Trintignant, vittorioso a Monaco nel 1955 e nel 1958.

La Tyrrell si presenta al via della stagione 1972 con la medesima coppia di piloti dell’anno precedente. Stavolta però Stewart ha un avversario difficile da battere, Emerson Fittipaldi che alla fine conquista il titolo con la Lotus 72. Per Cevert il 1972 si chiude al sesto posto della classifica piloti con solo 15 punti dopo vari ritiri e piazzamenti. La delusione di Cevert è palpabile e il francese si consola con un prestigioso secondo posto alla 24 ore di Le Mans, in coppia con il neozelandese Howden Ganley con la Matra-Simca 670. Con la barchetta francese continua a correre anche nel 1973 dove conquista la 1000 Km di Vallelunga con Henry Pescarolo e Gerard Larrousse.

La lotta Tyrrell – Lotus continua nel 1973, ed è anche lotta tra i primi ed i secondi piloti. Stewart contro Fittipaldi per la testa del campionato Cevert con Peterson per le altre due posizioni, è questo il film di quella stagione. Il brasiliano vince il primo Gran Premio, in Argentina, proprio davanti a Cevert che giunge staccato di appena 4.69 secondi. Terzo giunge Stewart, a dimostrazione del gran livello raggiunto dalla Tyrrell durante la pausa invernale. Le due gare seguenti sono deludenti per il francese, che giunge decimo in Brasile e si ritira in Sudafrica. Il prosieguo di stagione è tuttavia eccellente per Cevert, che conquista due secondi posti consecutivi in Spagna e in Belgio. Giunge quindi quarto a Monaco e terzo al Gran Premio di Svezia, prima di conquistare un nuovo secondo posto in Francia e un quinto in Gran Bretagna. Il 29 luglio coglie a Zandvoort, nel Gran Premio d’Olanda, un nuovo secondo posto dietro al compagno Stewart.

Cevert, bellissimo ed affascinante come un attore. Occhi azzurri, profondi, magnetici, è lanciatissimo ed in Francia è quasi un eroe nazionale. Si muove per l’Europa pilotando personalmente il suo Piper, non c’è ragazza che non abbia una sua foto, non c’è rivista che non lo ritragga. Si muove molto bene nel jet set, ha diverse donne tra cui vanta due fidanzate storiche, ricchissime, nobili e precocemente divorziate: Anne Nanou Van Malderen e Christina de Caraman-Chimay; ma la stampa transalpina gli attribuisce anche un presunto flirt con Brigitte Bardot. La star francese non smentisce, François da gentiluomo ….. non conferma!
In Germania: è ancora doppietta Tyrrell, con Stewart primo e Cevert subito dietro, con appena 1.6 secondi di distacco, a dimostrare totale rispetto per le gerarchie di squadra ma anche piena legittimazione ad aspirare al titolo mondiale. Per lo scozzese è infatti il 5° successo stagionale, che gli vale la matematica conquista del titolo mentre il francese si proietta nei piani alti della classifica, contendendo addirittura la seconda posizione a Fittipaldi.Le successive due gare tuttavia non vanno secondo l’esito sperato. Cevert si ritira in Austria e in Italia giunge solo quinto. Per contro Fittipaldi coglie un secondo posto, mentre uno strepitoso Peterson vince sia a Zeltweg che a Monza.

A questo punto per Cevert resta la possibilità di conquistare il secondo posto, al fine di chiudere nel migliore dei modi una già ottima annata e si presenta determinatissimo per l’atto conclusivo della stagione in Nord America. Però l’annata ha una brusca sterzata ed il 23 settembre a Mosport Park, nel Gran Premio del Canada, Cevert è coinvolto, in un brutto incidente causato dall’irruente Jody Scheckter. Il francese riporta una ferita ad una caviglia ed il tutto finisce in una violenta litigata con il giovane sudafricano. La Tyrrell 006 ha la pedaliera distrutta e così in fretta e furia viene fatta arrivare in aereo dall’Inghilterra una nuova vettura, la 006/3, giusto in tempo per il Gran Premio degli Stati Uniti, in programma il 7 ottobre a Watkins Glen, mentre lui è in vacanza alle Bahamas con Jackie ed Helen Stewart.

La lotta è ancora con Ronnie Peterson ed i due battagliano in prova per guadagnare la pole position, fino a sei minuti dalla fine delle prove quando la Tyrrell esce alle velocissime “Esse”, nella parte iniziale del tracciato, il bolide non curva, andando a schiantarsi ad oltre 180 chilometri orari contro le vicine barriere metalliche e rimbalzando contro quelle dall’altra parte della pista dopo essersi capovolta. Infine la Tyrrell si incunea tra i due guard rail sovrapposti. L’impatto è violentissimo e l’entità del dramma viene subito percepita: i primi ad accorrere sono Jody Scheckter e l’amico Carlos Pace, i quali capiscono che c’è ben poco da fare. I commissari di gara trovano il pilota intrappolato tra i rottami dell’auto ed orrendamente straziato dalle lamine del guard-rail. Una delle ruote anteriori gli ha sfondato il casco, provocandone la morte istantanea. Cevert non viene neanche estratto subito dalla carcassa della Tyrrell, procedendo i commissari prima a disincastrare, con un carro attrezzi, la vettura dal parapetto metallico: come dirà l’attonito compagno e amico Stewart, recatosi immediatamente sul posto, «L’hanno lasciato nell’auto perché era chiaramente morto». Stewart abbandona immediatamente la scena dell’incidente e torna ai box, cosa che costituirà il rimorso della sua vita, per non essersi trattenuto di più ed aver fatto qualcosa pur se inutile, anche solo togliere il casco, al fedele scudiero di tre intense stagioni.

Ignote le cause dell’incidente: alcuni, tra i quali Niki Lauda anni dopo nel suo libro “Io e La Corsa”, parlarono di un insidioso avvallamento sull’asfalto su cui François sarebbe passato per una traiettoria eccessivamente aggressiva a bordo pista; chi di malore del pilota per l’essere salito in macchina dopo una crisi di vomito (e vomito fu infatti repertato nel cappuccio ignifugo e sulla visiera in sede di autopsia); altri attribuirono la responsabilità ai postumi della ferita alla caviglia riportata due settimane prima ed in effetti il francese sfoggiava ai box una vistosa bendatura. Per il compagno Stewart invece, semplicemente e contro il suo consiglio, il francese avrebbe affrontato le “Esse” in terza marcia ad altissimo numero di giri col risultato di avere una vettura più pronta ma nervosissima ed incontrollabile in caso di difficoltà. Lo scozzese anzi aggiunse che dopo l’incidente, quando risalì in vettura per affrontare la quarta ed ultima sessione di prove, staccando tra l’altro il settimo tempo, ebbe anch’egli delle difficoltà alle “Esse” ma riuscì a tenere in strada la vettura in quanto la quarta marcia gli permise un controllo molto più morbido e facile.

L’incombenza di avvertire i famigliari tocca al cognato Beltoise. Cevert venne sepolto nel Cimitero di Vaudelnay, nel dipartimento del Maine e Loira.
La morte del ventinovenne pilota francese sconvolge la Formula 1, primo fra tutti Stewart. Lo scozzese confesserà tempo dopo che nell’aprile 1973 aveva maturato la decisione di abbandonare la F1, lasciando a Cevert il ruolo di prima guida in Tyrrell per la stagione 1974. Stewart aveva parlato della cosa solo con il patron Ken Tyrrell, Jackie non aveva informato neppure la moglie Helen, presente in quel tragico weekend a Watkins Glen, per evitarle la tensione del conto alla rovescia delle ultime gare da disputare. È facile quindi capire come, con questo rigido patto del silenzio, François mai abbia saputo che sarebbe divenuto il nuovo primo pilota della Tyrrell, con indubbie chances di vincere il titolo mondiale, cosa che la Francia dava ormai quasi per scontato.
In tarda serata la Tyrrell annuncia il ritiro dal Gran Premio delle due vetture superstiti, la 005 di Chris Amon e la 006/2 di Jackie Stewart. Lo scozzese, distrutto dal dolore, non prende così parte a quella che, in ogni caso, sarebbe stata la centesima ed ultima gara della sua carriera. Il giorno successivo rilascia delle interviste in cui manifesta l’intenzione di lasciare, intenzione che sarà ufficializzata, al ritorno in patria, in una conferenza stampa al Tower Hotel di Londra.

La migliore descrizione della personalità del giovane francese è quella data da Helen Stewart in una intervista: “esistono persone eccezionali che hanno tutto ed un magnetismo particolare. Nella vita ne incontri due o tre al massimo, perché sono persone che conquistano subito tutti quelli che hanno attorno e riempiono lo spazio in cui si trovano. Francois era uno di questi!”