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lunedì 25 aprile 2022

Gilles e Didier, una storia di quarant’anni fa


di Massimo Campi - foto di Raul Zacchè/Actualfoto

Imola 1982, la gara dello strappo, di quel litigio tra i due piloti del Cavallino che ha cambiato la storia della Rossa in Formula Uno in una stagione dove tutto sembrava semplice, dove la vittoria era a portata di mano. Ed invece quel Gran Premio di San Marino è l’inizio di una delle rivalità dai contorni più drammatici vissuta al box Ferrari ed il preludio alla fine di due grandi piloti.

Gilles Villeneuve e Didier Pironi una coppia di piloti fortissimi che si forma nel 1981, quando il francese giunge a Maranello, mentre il canadese è già nei ranghi della rossa dal 1977. Tra i due nasce subito un ottimo rapporto che si trasforma in una profonda amicizia.

Tutto funziona bene, l’atmosfera nel box è ottimale per la stagione 1981, ma tutto precipita in modo drammatico in quel 25 aprile del 1982 sulle rive del Santerno. La stagione è problematica per la massima formula, sconvolta dalle polemiche tra le scuderie inglesi che aderiscono alla FOCA capeggiata da Bernie Ecclestone, contro le altre legate alla FISA, la Federazione Internazionale presieduta da Jean Marie Balestre.
Tra le due compagini è una lotta di potere per garantirsi il controllo del Circus, dove circolano sempre più enormi quantità di denaro.

Dopo la prime gare, si arriva allo scontro frontale ad Imola con la defezione delle principali scuderie d’Oltremanica che lasciano la griglia ai cosiddetti legalisti, ossia Ferrari, Renault, Alfa Romeo, Osella e Toleman, solidali con Balestre. Serve salvare la gara, lo spettacolo, che in realtà appare misero, con poche macchine al via e le prove dominate dalle monoposto della Regie che occupano la prima fila, con Renè Arnoux e Alain Prost, seguite da Villeneuve e Pironi con il 3° e 4° tempo.

Nessuno sembra scommettere sulle macchine francesi, con i loro motori turbo sempre molto fragili, mentre ai box delle rosse scatta un accordo tra i piloti: chi dei due si troverà in testa a metà gara salirà sul gradino più alto del podio. Come copione le Renault scattano bene, Arnoux è al comando e allunga, seguito da Prost e Villeneuve che guadagna la seconda piazza dopo poche curve. Al 26esimo passaggio il canadese si porta in testa alla Piratella, ma poco dopo, alla Tosa, deve cedere nuovamente il passo ad Arnoux e a Pironi. Mentre la Renault cerca di fuggire, Villeneuve ripassa Pironi dando così inizio ad un’accesa bagarre e quando alla 44esima tornata il turbo di Arnoux cede di schianto, il canadese si trova in testa con Pironi che lo segue come un’ombra. Per la gioia del pubblico, le due rosse ormai sole al comando continuano a giocare al gatto e al topo. Pironi diventa leader all’uscita della Rivazza e tre giri dopo viene fulminato dal canadese.

Al 45esimo dei 60 passaggi previsti, dal muretto Ferrari viene esposto un cartello su cui spicca una scritta: “slow”. Il cavallino rampante vuole congelare le posizioni per conquistare importanti punti nel campionato costruttori. Villeneuve si sente sicuro del gioco di squadra e rallenta l’andatura per non rischiare la meccanica, ma Pironi sferra l’attacco e ritorna al vertice. Gilles crede che Didier voglia continuare a far divertire il pubblico sugli spalti e sta al gioco, ma al penultimo passaggio Pironi chiude tutte le porte a Villeneuve che rompe gli indugi e lo supera con decisione all’uscita della Tosa.

Cambia improvvisamente il ritmo di gara, ed all’ultimo giro si consuma definitivamente il tradimento con Pironi che sferra il colpo basso alla Tosa beffando un allibito Villeneuve che non riesce più a sopravanzare il compagno di squadra. La bandiera a scacchi sancisce il risultato, ma Villeneuve, quando esce dall’abitacolo è incavolato nero. Il canadese è ferito nell’anima, si sente tradito, mai si sarebbe aspettato una pugnalata alle spalle dall’amico Didier.

“Adesso so chi è il mio compagno di squadra…” dice Gilles salendo a fatica sul podio, poi entra nel motorhome dove urla al direttore sportivo Marco Piccinini di cercarsi un nuovo pilota e scappa via dalla pista. Pochi giorni dopo si presenta a Maranello, convinto di trovare la solidarietà dal team e da Enzo Ferrari. Ma il “Drake” lo spiazza facendogli capire che per lui ciò che conta è la vittoria di una sua macchina: per le statistiche, quella di Imola era la 27esima doppietta in F.1 nella storia del Cavallino.

È l’inizio delle fine tra l’aviatore e la rossa, un epilogo che diventa dramma nel successivo Gran Premio del Belgio, a Zolder. Gilles e Didier si evitano, il canadese vuole ristabilire le gerarchie, le prove del venerdì vedono Villeneuve davanti a Pironi, ma quando il giorno dopo a pochi minuti dal termine delle qualifiche il transalpino è davanti, Gilles decide di tornare in pista per batterlo, vuole dimostrare al team di essere lui la prima guida. Villeneuve si tuffa di nuovo in pista, giunto in prossimità della Terlamenbocht, la curva del bosco, si trova davanti la March guidata da Jochen Mass che procede lenta. Villeneuve cerca di passarlo all’esterno sulla destra, con una manovra al limite, ma la ruota anteriore destra della Ferrari 126 C2 urta la posteriore sinistra della March. La “rossa numero 27” decolla, ripiomba a terra di muso ed inizia a roteare, Villeneuve nell’impatto vola fuori dall’abitacolo, le cinture di sicurezza si rompono. Le condizioni sono disperate, il pilota viene trasferito in condizioni all’ospedale Saint Raphael di Lovanio ed alla 21.22 verrà dichiarata la sua fine definitiva.

La Ferrari e tutta la Formula 1 sono sotto shock, ma il destino sarà terribile anche nei confronti di Pironi. Il 7 agosto, nel corso delle prove del sabato mattina ad Hockenheim per il G.P. di Germania, il ferrarista tampona la Renault del connazionale Alain Prost che procede lenta in un muro d’acqua. Una collisione dalla dinamica simile a quella di Villeneuve, complice sempre un malinteso tra i due piloti. L’impatto è simile a quello di Zolder ma il francese rimane vivo anche se la sua carriera in Formula 1 è definitivamente terminata. Ha fratture multiple alle gambe, la degenza ospedaliera durerà circa un anno, durante la quale subirà 30 operazioni e ben 35 anestesie. Nessuno avrebbe mai pensato che sarebbero bastate poche tornate per cambiare radicalmente il prosieguo di una stagione trasformandola in un autentico incubo e la Ferrari 126C2, pur essendo la migliore monoposto della stagione, non riuscirà a portare nessun pilota al titolo iridato.

Pironì è un lottatore e non abbandonerà il mondo dei motori dedicandosi alle gare sugli off-shore fino al 23 agosto del 1987, quando il suo motoscafo si ribalta nel corso di una competizione al largo dell’isola di Wight, in Gran Bretagna scrivendo la stessa fine alle storie di due campioni che da amici sono diventati acerrimi nemici.

Foto di Raul Zacchè/Actualfoto

















Foto di Raul Zacchè/Actualfoto

lunedì 18 aprile 2022

Il casco, l’elmo dei piloti


> di Massimo Campi
> foto di Raul Zacchè

In carbonio, multicolori, supertecnologici, il casco ha seguito la storia dell’automobilismo da corsa; oggi siamo abituati a riconoscere i piloti attraverso i disegno del loro casco, ma l’uso di questo strumento protettivo ha subito una evoluzione al pari passo delle auto e di tutto l’abbigliamento da corsa. Inizio secolo scorso, i piloti “cavalieri del rischio” erano abituati a sentire l’aria sul viso. I meno temerari iniziavano ad indossare delle cuffie di tela pesante derivati da quelli dei pionieri dell’aviazione e cuciti in modo da avere un sottogola che ne fermasse i lacci. Lo scopo principale era quello di proteggersi dalla pioggia e dal vento che iniziava a dare fastidio alla alte velocità. Per gli occhi, che dovevano essere anche loro protetti, si usavano degli occhiali derivati anche questi dai piloti di aerei, o semplicemente quelli utilizzati dai saldatori nell’industria meccanica ai quali venivano sostituite le lenti.

Uno dei primi ad utilizzare un vero casco fu Tazio Nuvolari: era di pelle rinforzata con la calotta imbottita e ben presto viene imitato da altri piloti. L’esigenza dell’immagine data dall’ingresso dei grandi costruttori di auto rende i piloti più professionali ed attenti anche ai vari particolari estetici.
Alla ripresa delle corse, dopo il periodo bellico, nulla è sostanzialmente cambiato dalla fine degli anni’30. Nino Farina, primo campione mondiale nel 1950, indossa ancora l’abbigliamento anteguerra e fino alla metà degli anni ’50 non si hanno particolari innovazioni. Le prestazioni però sono in aumento, le strade e le piste sono ancora piene di detriti e serve avere maggiore protezione per la testa. 

Si iniziano a vedere i primi caschi a scodella con la calotta metallica rigida, alcuni rivestiti di pelle con cinghie laterali per fissarli al mento mediante una fibbia, altri direttamente in metallo verniciato. Anche questi copricapi derivano da quelli usati dai piloti da caccia senza però i polmoni laterali tipici dei caschi da aviazione. Manuel Fangio, Stirling Moss, Peter Collins, Luigi Musso, Eugenio Castellotti, Alberto Ascari, sono i principali campioni che indossano i nuovi caschi ed alcuni di loro usano particolari colori, ad esempio Ascari che non si separa mai dal suo copricapo azzurro.

Alla fine degli anni ’50 si ha una successiva evoluzione. Nessun casco ha la calotta rivestita in pelle, ma tutti lo usano con la calotta verniciata. i fianchi si allungano fino a coprire le orecchie con protezioni rigide. Compaiono anche le prime visiere trasparenti simili a quelle dei cappelli con l’aletta, sono di plastica applicate a pressione. La Cooper rivoluziona la tecnica con le sue leggere monoposto a motore posteriore ed il loro pilota, Jack Brabham fu il primo a vincere il titolo nel 1959, utilizzando questo nuovo casco.

La prima grande rivoluzione nei caschi si ha negli anni ’60: nasce il casco Jet sempre di derivazione aereonautica utilizzato dai piloti dei caccia supersonici. È fabbricato con i nuovi materiali plastici uniti con la fibra di vetro. La principale produttrice è l’americana Bell che fa il suo ingresso in F1 con il suo Jet che copriva i lati e la nuca fabbricato in fibra di plastica con una visiera applicata mediante bottoni a pressione sulla parte superiore dell’apertura per il viso. Il marchio è spesso ben presente sopra la nuca, le immagini diffuse sono un ottimo veicolo pubblicitario per la ditta statunitense. Le calotte sono spesso verniciate con i colori richiesti dai piloti e la loro immagine si identifica sempre di più con i colori del casco. Jim Clark vince i due titoli mondiali con il suo Bell blu notte, John Surtees con quello bianco e striscia blu centrale. Graham Hill ha il suo casco blu scurissimo con i remi stilizzati del suo club nautico. Anche gli occhiali di protezione diventano del tipo a mascherina, come quelli utilizzati dagli sciatori con materiale isolante ai lati per non far passare l’aria all’interno, le lenti erano intercambiabili sia da sole che chiare, alcuni mettono un nastro adesivo sulla parte superiore della lente per ripararsi dal sole. La visierina superiore a volte viene integrata da un elemento trasparente che funge da parasole, ma sotto l’acqua alcuni montano una visiera di tipo trasparente in plexiglas che copre tutto il viso arrivando fino al mento.

Il tema della sicurezza inizia a farsi sempre più strada tra i giovani piloti, le coperture della F.1 sono sempre più larghe, ghiaietto e pezzi di gomma sono spesso sparati in faccia ai piloti. Nel 1968 inizia la grande rivoluzione che muterà profondamente l’immagine del pilota da corsa. Nel GP d’Italia a Monza, Dan Gurney indossa il primo prototipo di casco integrale realizzato sempre dalla Bell. Ha la visiera fissa, applicata alla calotta mediante bottoni a pressione ed ha inizio la grande svolta. Ben presto la Bell realizza la visiera mobile e mette a punto lo Star Helmet che diventerà il simbolo della F.1 moderna. Tutti i piloti ben presto lo adottano e lo personalizzano con varie decorazioni e colori. I più famosi sono quelli di Jackie Stewarth, bianco con il tartan scozzese, Jackie Ickx, blu notte contornato dalla striscia bianca, Clay Regazzoni con i colori bianchi e rossi della Svizzera, come quelli di Jo Siffert ma invertiti, il verde petrolio di Jochen Rindt o il melanzana di Jackie Oliver.

Per alcuni piloti il casco diventa un vero simbolo di riconoscimento con vari disegni, è il caso delle aquile stilizzate di Ignazio Giunti, l’arcobaleno multicolore di Francoise Cevert o quello di Emerson Fittipaldi. Sulla scia della Bell altri costruttori di caschi entrano nella scena internazionale. Negli anni ’80 spicca l’americana Simpson, con il modello Bandit, ispirato ai guerrieri del film “guerre stellari” di George Lucas.

Con la tecnologia cambiano anche i materiali di calotte e visiere. Le prime passano da materiali plastici alla fibra di carbonio per ridurre pesi ed aumentare la sicurezza. Anche le visiere cambiano, da semplice plexiglass piegato ora sono realizzate con resine speciali a prova di proiettile. 
Le colorazioni ormai sono vere e proprie opere d’arte e spesso cambiano da un gran premio all’altro per soddisfare le esigenze di immagine di piloti e sponsor.


Schumacher, Raikkonen, Jody Scheckter, sono tutti campioni Ferrari che hanno usato caschi integrali, ormai d’obbligo nella Formula 1 moderna. I caschi del sudafricano e del campione di Kerpen sono sempre stati molto riconoscibili, con una grafica sempre semplice e lineare. Anche quando Shumacher ha ripreso a correre con la Mercedes, ha conservato il colore rosso del suo casco, in memoria dei giorni di gloria passati al volante delle rosse di Maranello.

lunedì 28 marzo 2022

I fratelli Opel, una famiglia avventurosa


Chi pensa ai tedeschi solo come gente severa e concentrata esclusivamente sul lavoro, sbaglia di grosso. Tra i componenti della famiglia Opel troviamo esempi di autentici scavezzacollo. La foto dei cinque fìgli (Carl, Wilhelm, Heinrich, Friedrich ("Fritz"), Ludwig - avuti tra il 1869 e il 1880 da Adam Opel, mitico fondatore, nel 1862, dell’azienda tedesca - riuniti in sella a una singolare tandem a cinque posti ha fatto il giro del mondo.

In occasione di grandi manifestazioni i cinque fratelli Opel facevano volentieri un giro d'onore in sella a questo tandem realizzato appositamente per loro, ricevendo sempre applausi scroscianti. Una trovata pubblicitaria, senza dubbio, ma anche un modo per illustrare il temperamento avventuroso degli allora giovani Opel. E soprattutto i nuovi piani industriali di un’azienda che fino ad allora si era fatta una solida fama come costruttore di macchine da cucire.

Le corse come promozione delle biciclette.
Quando, nel 1887, si venne a sapere che in Gran Bretagna si organizzavano gare che richiamavano un vasto pubblico negli stadi e lungo le strade, Carl ebbe il permesso di partecipare alle corse ciclistiche che anche in Germania diventavano più popolari e fare nello stesso tempo pubblicità alla nuova attività dell'industria di casa. Con le vittorie sportive salì anche il numero dei contratti. Adam Opel dovette ben presto ingrandire di nuovo l'azienda e ampliare la gamma dei modelli: ai velocipedi si aggiunsero biciclette normali e tricicli. Il primo listino prezzi riportava le parole dello stesso fabbricante, ormai entusiasta: “Il divertimento di andare in bicicletta non è esclusivo di un'età o di uno stato: il triciclo offre anche alle signore e agli anziani la possibilità una sana ricreazione. Andare con le nostre biciclette esercita un'azione fortificante e distensiva sul corpo e sullo spirito. Russelsheim, Dicembre 1887, Adam Opel”.

Carl ottenne 60 vittorie, tra le quali quella nel campionato di Hessen; Wilhelm fu campione di Hessen e di Moravia e conquistò 70 successi; Heinrich si impose 150 volte, vinse 11 campionati e la corsa Parigi-Francoforte nella quale stabilì un nuovo record completando il percorso in 80 ore e 30 minuti. Il miglior agente pubblicitario della famiglia fu però Friedrich, detto “Fritz”, che si rivelò uno dei più famosi ciclisti tedeschi e ottenne più di 180 successi.
La sua vittoria più strepitosa fu quella nella Basilea-Cleve, quando coprì 620 chilometri in 27 ore e 50 minuti, per la quale ricevette il Premio dell'Imperatore. Ludwig, il più giovane, ottenne nel corso della sua carriera ben 100 vittorie. Le frequenti vittorie portarono una notevole notorietà e questa a sua volta influenzò positivamente il nuovo settore produttivo il cui fatturato superò ben presto quello delle macchine da cucire.

L’epoca dei razzi.
Passano gli anni e la motorizzazione guarda altrove. E’ il 23 Maggio 1928 quando oltre 3.000 persone riempirono le tribune dell’autodromo tedesco dell‘Avus - due interminabili strisce d‘asfalto collegate da un tornante e da una sopraelevata - alle porte di Berlino per assistere al tentativo di record di Fritz Von Opel (figlio di Wilhem e quindi nipote e fondatore) e della sua Opel RAK2. Fra di loro c’erano personaggi del mondo degli affari, dello sport, della scienza e della politica. E perfino la stella cinema Lilian Harvey e il campione di pugilato Max Schmeling.

Quando il telone fu sollevato dalla vettura il pubblico restò letteralmente a bocca aperta. La Opel RAK2 non somigliava a nessun‘altra automobile dell‘epoca: era una slanciata monoposto a forma di sigaro di colore nero brillante dotata di due grandi ali laterali che servivano a tenerla incollata all‘asfalto. Nella parte posteriore erano stati montati 24 razzi a carburante solido che producevano una spinta da 6.000 kg. La Opel RAK2 era progettata per superare i 200 km/h, ma nessuno sapeva esattamente quale velocità avrebbe potuto raggiungere effettivamente.

Il sogno era iniziato l‘anno prima 1927 quando Max Valier, un astronomo sudtirolese autore del libro “L’avanzata nello spazio”, avvicinò Von Opel cercando un sostegno economico per lo studio di un motore a razzi. Von Opel, che pilotava egli stesso automobili da corsa e aeroplani, intuì il potenziale della tecnologia dei razzi, così come la pubblicità che ne sarebbe potuta derivare all’industria di famiglia. Da quel momento nella fabbrica Opel si cominciarono a studiare innovativi sistemi di propulsione, misurando la spinta di differenti tipi di razzi su banchi prova appositamente realizzati.
I tecnici collegarono i cavi di accensione ai razzi montati nella parte posteriore del veicolo e il ventinovenne Von Opel si trovò al volante della Opel RAK2 con indosso un giubbetto e un paio di occhiali da aviatore seduto, come ricordò in seguito su 120 kg di esplosivo - abbastanza per distruggere un intero quartiere! - 
«Quando ho premuto il pedale dell’accensione, ho sentito i razzi ruggire alle mie spalle e spingermi in avanti» disse in seguito. «E’ stata una sensazione straordinaria! Ho premuto il pedale con decisione due, tre, quattro volte. Ho visto le persone ai miei lati sparire e la strada allungarsi davanti a me come un nastro rosso. Dopo aver premuto l’acceleratore per l’ultima volta ho smesso di pensare e mi sono affidato al solo istinto mentre una forza incontrollabile esplodeva dietro di me».
Lo spettacolo durò meno di tre minuti, ma la notizia fece subito il giro del mondo: nel corso della prova Fritz Von Opel e la sua automobile avevano raggiunto la velocità record di 238 km/h. Era iniziata l’epoca dei razzi!

L’esperienza di Formula 1.
Passano gli anni, molti a dire il vero. Da oltre 40 i fratelli Opel hanno ceduto l’azienda a un grande gruppo industriale e si godono il benessere conquistato dai loro predecessori quando nel 1973 Rikki Von Opel (bisnipote di Adam) debutta in Formula 1 con la Ensign. Negli anni precedenti ha corso nelle formule minori con lo pseudonimo di “Antonio Branco” per evitare l'ostracismo della sua famiglia contraria al suo impegno motoristico, ma adesso ha deciso di uscire allo scoperto. Nel 1974, abbandonata la Ensign dopo i primi tre gran premi ai quali non riesce a prendere parte, trova il volante di una Brabham. Partecipa a 4 Gran Premi, non si qualifica per due volte. Il suo migliore risultato sarà il nono posto conquistato in Olanda e in Svezia. Ancora oggi è l'unico pilota con cittadinanza del Liechtenstein ad aver corso in Formula 1.

Credits: Opel Comunicazione

domenica 27 marzo 2022

Didier Pironi: una carriera tormentata tra successi ed incidenti.




di Massimo Campi, foto Raul Zacchè/Actualfoto

 

Didier Joseph-Louis Pironi era nato il 26 marzo 1952 a Villecresnes, in Francia. Il padre era di origine friulana, originario di Villesse, in provincia di Gorizia, che aveva fatto fortuna in Francia, era fratellastro minore e cugino del pilota José Dolhem: stesso padre e madri diverse ma sorelle. Pironi mostrò subito una predisposizione per l'attività sportiva agonistica, a 15 anni divenne campione parigino juniores, di nuoto. In seguito nasce la passione per i motori, proprio per merito di Josè Dolhem che nel 1974 arriverà anche in F1.

Didier frequenta l'ambiente, diventa amico di campioni emergenti francesi come Patrick Depailler e Jean-Pierre Jarier. Inizia a correre in moto, poi passa alle quattro ruote con i Rally. In seguito arriva la pista, si mette in mostra anche lui tra i giovani emergenti in quella stagione che vedrà molti francesi arrivare alla massima formula. Nel 1977 si aggiudicò il prestigioso Gran Premio di Monaco di Formula 3 con la Martini dell'Ecurie Elf iniziando la scalata alla F.1, ovviamente passando nella F.2 sempre con le Martini della Elf. Ken Tyrrell gli offrì un volante per il 1978, a fianco del suo vecchio amico Patrick Depailler. 



Pironi esordì in Formula 1 al Gran Premio d'Argentina 1978, ove giunse quattordicesimo a un giro dal vincitore Mario Andretti. Nel frattempo, nel 1978, vinse la 24 ore di Le Mans con Jean-Pierre Jaussaud alla guida della Renault Alpine A442B. Per la stagione 1980 venne ingaggiato dalla scuderia francese Ligier, per far coppia con Jacques Laffite. Anche se confermato dalla Ligier per l'anno successivo, all'indomani del Gran Premio d'Italia 1980 la Ferrari annunciò che Didier Pironi avrebbe affiancato Gilles Villeneuve nella stagione 1981. Enzo Ferrari svelò di aver concluso l'accordo già a marzo 1980 e ammise di essere stato entusiasmato dal pilota francese.



Nel 1982 la Ferrari è la macchina da battere, il mondiale sembra alla portata di mano, un inizio di anno sfolgorante che ben presto sfocia in drammi e tragedie. Il tutto parte con il Gran Premio di Imola e quello sgarro di Pironì a Villeneuve. Dopo quella vittoria di Pironi ai danni del canadese inizia il periodo delle tragedie. Villeneuve muore 15 giorni dopo a Zolder nel tentativo di sopravanzare in prova il francese. La Ferrari e tutto l'ambiente del motorsport non riescono digerire quel dramma e si arriva in agosto al GP di Germania. Il venerdì, pista asciutta, Pironi ottiene facilmente la pole position. Il sabato mattina, 8 agosto, Hockenheim è inondata d'acqua e Pironì scende in pista per testare assetto e gomme da bagnato.

Sul lungo rettilineo prima del Motodrom il francese è dietro alla Williams di Derek Daly. Improvvisamente questa esce dalla traiettoria ed il francese pensa che voglia dargli strada. In realtà l'inglese sta solo sorpassando la Renault di Alain Prost che procede ad andatura ridottissima. Nascosta dalla nuvola d'acqua della Williams, compare davanti agli occhi di Didier mentre questi sta accelerando per sorpassare Daly. L'impatto è violentissimo, a causa della grande differenza di velocità, l'auto di Pironi decolla arrivando sin quasi all'altezza degli alberi, e ricade di muso al suolo. La scocca si spezza in due, quasi ad angolo retto, l'avantreno si disintegra insieme alle gambe del pilota.

La scena che si presenta ai soccorritori è raccapricciante: il pilota è imprigionato nelle lamiere ed urla per il dolore mentre la gambe sono straziate dall'urto. Nei filmati dell'epoca si vede uno dei commissari che si mette le mani nei capelli visibilmente scosso. Ci sono anche Prost e Nelson Piquet che, vedendo le condizioni di Pironi, manifestò problemi di stomaco.

Fortunatamente, l'equipe medica guidata dal professor Letournel, luminare francese della chirurgia ortopedica, riesce ad evitare l'amputazione degli arti ma l'incidente significa la fine della carriera. Nel mondiale giunge comunque secondo, grazie ai numerosi punti conquistati.

La guarigione è lenta e dolorosa con una trentina di operazioni alle gambe. Nel 1986 prova una AGS di F1 durante dei test privati e quindi una Ligier, per vedere se c'è qualche possibilità per un suo ritorno, ma il responso è negativo. Inoltre la sua compagnia di assicurazione lo aveva risarcito con una ingentissima somma, proprio sulla base del fatto che le sue gravissime lesioni non gli avrebbero più permesso di fare il pilota di F1. Tornare alle gare avrebbe così significato dover restituire tutto il denaro.

Pironi si dedica ad un altro sport motoristico: la motonautica. Inizia a gareggiare con gli Off Shore, va forte e vince anche delle gare fino a quel tragico 23 agosto del 1987 mentre sta disputando la Needles Trophy Race al largo delle coste dell'isola di Wight. La Colibrì 4, nel tentativo di guadagnare terreno sul leader della gara, si ribalta alla velocità di 90 nodi (circa 170 km/h) tra le onde di scia della petroliera Esso Avon, non lasciando scampo agli occupanti.

Oltre a Pironì muoiono gli altri due componenti del suo equipaggio, Bernard Giroux e Jean-Claude Guenard. Finisce così a soli 35 anni, la storia di Didier Pironi, una pilota innamorato della velocità con una carriera tormentata tra successi ed incidenti.

Didier Pironi viene sepolto nel cimitero di Grimaud, vicino a Saint-Tropez e condivide la tomba col fratellastro José Dolhem, deceduto meno di un anno dopo precipitando col proprio monomotore nei pressi di Saint Etienne. Una suggestiva epigrafe ricorda il tragico destino di questi due piloti: "Entre ciel et mer" (Tra cielo e mare).

Poche settimane dopo la tragedia, la sua compagna Catherine Goux dà alla luce due gemelli, che vengono chiamati Didier e Gilles in ricordo di Villeneuve.












venerdì 18 marzo 2022

Grand Tour Ferrari, viaggio tra passione e bellezza tra le memorabili GT con il Cavallino Rampante



Testo di Massimo Campi
Immagini di ©Raul Zacchè

Da oltre 70 anni i cancelli di Maranello rappresentano il punto di partenza di una storia fatta di fascino e stile che ha conquistato il mondo intero. Il Grand Tour comincia qui e segna le sue tappe nelle più affascinanti città del mondo: il glamour delle luci di Parigi, le avanguardie londinesi, l’energia travolgente di New York e degli Stati Uniti, passando dal lusso medio-orientale e terminando con l’estetica millenaria della Cina e dell’Estremo Oriente, Ferrari si racconta attraverso momenti memorabili e personaggi che nel tempo hanno scelto le sue auto come simbolo di bellezza e prestigio.

I numerosi successi sui campi di gara, a partire dalla prima vittoria al Gran Premio di Roma sul circuito di Caracalla, hanno trascinato a macchia d’olio le preferenze prima dei piloti poi di gentleman drivers e celebrities, rimasti folgorati da quel fascino speciale e vincente prerogativa di Ferrari, sempre rivoluzionaria e all’avanguardia nella raffinata meccanica e nella bellezza delle forme.



Luoghi iconici e personaggi indimenticabili sono gli elementi di una lunga, bellissima storia che si dipana tra tempo e spazio, e che vede Ferrari sempre protagonista insieme alle sue auto da sogno. Il Grand Tour termina idealmente in Italia, con l’ultima nata della casa del Cavallino Rampante che reinterpreta in chiave contemporanea l’eleganza e la raffinatezza del lifestyle tipico della Dolce Vita degli anni ‘50-’60 e che qui viene presentata al mondo intero dal palcoscenico della Città Eterna.

Eleganza rappresentata da alcune vetture iconiche e pezzi realizzati in pochi esemplari. Si parte dalla Ferrari 166 Inter del 1949, con il suo V12 di 2 litri, la prima vettura di Maranello per i facoltosi clienti che si stavano innamorando delle vetture che vincevano le gare con l’insegna del cavallino rampante. 





La rassegna continua con la 250GTL del 1962, la versione più grande e più lussuosa della 250 GT Berlinetta. 
La 330 GT 2+2 fu presentata al Salone di Bruxelles nel gennaio del 1964, per sostituire la 250 GT 2+2, montava il V12 derivato da quello progettato da Gioachino Colombo con la cilindrata portata a 4 litri.




La 275 GTB nasce come erede delle Ferrari 250 e nel 1966 a Parigi viene presentata una versione con 4 alberi a camme, chiamata GTB/4 sempre disegnata da Pininfarina. Sulle 275 vennero adottate, per la prima volta su una vettura gran turismo Ferrari, le sospensioni a 4 ruote indipendenti e il cambio a 5 rapporti.




La 365GTB/4 del 1968 è l’ultima 12 cilindri a motore anteriore prodotta dalla fabbrica ancora diretta da Enzo Ferrari. Si dice che il nome non ufficiale di Daytona sia stato applicato dai media piuttosto che dalla Ferrari per commemorare il leggendario traguardo 1-2-3 della Ferrari alla 24 Ore di Daytona 1967. La piccola Dino 246 del 1969 è la prima vettura di serie a motore posteriore uscita dai cancelli della fabbrica. Monta il piccolo V6, lo stesso propulsore viene montato dalla Dino prodotta dalla Fiat, con un accordo nato negli anni ’60. La linea, studiata da Leonardo Fioravanti alla Pininfarina, sarà la base delle future berlinette del cavallino rampante.

Il salto temporale diventa lungo, ormai Enzo Ferrari è scomparso, la Fiat comanda nella produzione di serie, che ha aumentato notevolmente la produzione. 
Ma i grandi collezionisti vogliono prodotti di classe e nel 2004 arriva la 612 Scaglietti, la coupé immatricolata come 2+2 posti, che sostituisce la 456, con il V12 di 5.7 litri. La Ferrari 599 GTB Fiorano è stata progettata con diversi obiettivi specifici in mente: aumentare il piacere di guida, garantire prestazioni, comfort, ergonomia e sicurezza.


La Ferrari FF è super modello firmato Pininfarina con la trazione integrale ma soprattutto un'auto che ha l'eleganza, la bellezza e l'arte nella sua anima, ed un'allure sofisticata. La Ferrari F12tdf rende omaggio al Tour de France, la leggendaria gara di durata francese che vide la Ferrari protagonista assoluta durante gli anni ‘50 e ’60. È una evoluzione dalla F12 Berlinetta con il V12 ulteriormente potenziato a 780 cv e costruita in soli 799 esemplari per un gruppo selezionato di fedelissimi della Ferrari.

Sportività, eleganza e confort, è questo lo slogan di Maranello per la Portofino. Una spider eccezionalmente versatile con un nome particolarmente evocativo presentata nel 2018. L’ultima nata è la Roma, presentata nel 2020, una coupé 2+2 a motore centrale-anteriore, caratterizzata da un design senza tempo, da una spiccata raffinatezza e da guidabilità e prestazioni di assoluta eccellenza. Il richiamo è quello della “dolce vita”, grazie al suo stile inconfondibile, la vettura reinterpreta in chiave contemporanea il lifestyle della città di Roma tipico degli anni ‘50-‘60, caratterizzato dalla leggerezza e dal piacere di vivere.


Immagini di ©Raul Zacchè