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lunedì 14 marzo 2022

Vic Elford, campione non solo in pista


- di Massimo Campi
- foto Raul Zacchè/Actualfoto


Victor Henry Elford, nato a Londra il 10 giugno 1935, è stato uno dei più veloci piloti degli anni ’60 e ’70. I colleghi l'avevano soprannominato “Quick Vic” ed è considerato uno dei piloti più versatili di tutti i tempi. Ha vinto nei rally e con le vetture coperte, non è riuscito a sfondare nella massima formula, ma ha comunque conquistato punti nei 13 Gran Premi mondiali a cui ha partecipato.

“Ci sono piloti che vanno forte dovunque”, questo è il sunto della carriera agonistica di “Quick Vic” Elford, scomparso all’età di 86 anni.
Inizia a correre come navigatore di David Seigle-Morris nei rally, poi passa alla guida di una Mini nel 1961. Va forte, diventa pilota ufficiale della Ford Britannica prima di essere ingaggiato dalla Porsche e diventare Campione Europeo Rally nel 1967 con una 911. La sua grande stagione è il 1968: a fine gennaio vince il Rally di Monte carlo con una Porsche 911, il weekend successivo vince la 24 Ore di Daytona e un mese più tardi è secondo a Sebring. A maggio la conquista la Targa Florio con Umberto Maglioli, recuperando ben 18 minuti di ritardo dopo una foratura. e due settimane dopo, Elford domina la 1000 Km del Nurburgring.

A giugno la 24 Ore di le Mans gli sfugge a due ore dalla fine per un guasto alla frizione. Infine il suo debutto in F.1 a luglio in un G.P. di Francia allagato, dove riesce a condurre al 4º posto una Cooper per niente competitiva.
Dopo il ritiro della Porsche a fine 1971 dalle grandi gare di durata, è ingaggiato dall’Alfa Romeo ed il 1972 sarà la sua ultima stagione completa al volante della 33/3 litri. Continua nel 1973, e dal 1975 diventa Team Manager per la Inaltera. Continua la sua vita all’interno delle corse con vari compiti organizzativi fino agli ultimi anni dove ha un ruolo come testimonial della casa di Stoccarda con cui ha vinto le sue gare più famose,

Da tempo lottava contro la sua salute, alcuni colleghi hanno anche fatto una sottoscrizione in suo favore. Con Vic Elford scompare un pilota simbolo della fine degli anni ’60, alcuni lo avevano soprannominato anche “The Gladiator” per i suoi modi spicci e la sua condotta di gara, sempre tesa al risultato finale.








lunedì 28 febbraio 2022

Ferrari 330P4, mondiale nel 1967



> Testo di Massimo Campi  

> Foto di Raul Zacchè


La Ferrari con le ruote coperte ha vinto ben 14 titoli mondiali, tra tutte le vetture del cavallino rampante vittoriose nella categoria, una più di tutte ha lasciato il segno: la Ferrari P4 del 1967.


Nella storia della Casa di Maranello ci sono vetture che non hanno nel loro palmares tante vittorie, ma sono quelle più famose e tra queste c’è sicuramente la Ferrari 330 P4, che, nel 1967, ha segnato la sfida conclusiva con la Ford, l’atto finale di una guerra iniziata nel 1964 con la rinuncia di Enzo Ferrari a vendere la sua fabbrica al colosso di Detroit. 


Ford contro Ferrari, il colosso di Detroit contro il piccolo costruttore di Maranello, una sfida che ha fatto scrivere intere pagine di giornale e che ha tenuto viva l’attenzione degli appassionati nella metà degli anni ’60. L’atto finale di questa guerra, celebrata anche sul grande schermo, è la stagione 1967, con la Ford che vince a Le Mans ma la Ferrari riconquista il titolo mondiale battendo il colosso americano. 

Un sfida che, rivista dopo tanti anni, è finita con un pareggio dove ognuno dei due sfidanti ha ottenuto le proprie soddisfazioni. Rileggendo la storia di quella fantastica stagione c’è sicuramente una gara che rappresenta la vera vittoria delle rosse: la 24 Ore di Daytona, con le Ferrari che vincono in parata nella terra americana, praticamente in casa del nemico, una immagine che ha fatto il giro del mondo. La grande protagonista di quella stagione è la nuova Ferrari 330P4, il più bel prototipo uscito dalle officine di Maranello.



Uno smacco per gli americani,  Henry Ford dichiara guerra al piccolo costruttore italiano che conquistava le prime pagine dei quotidiani con le sue sonanti vittorie nelle gare domenicali. Sotto il marchio americano viene realizzata la Ford GT, in seguito ribattezzata GT40, proprio per conquistare quegli spazi e rivaleggiare con le rosse di Maranello. L’obbiettivo è quello di vincere la 24 Ore di Le Mans, la gara di durata per eccellenza ed il Campionato Mondiale Sport Prototipi, la serie più seguita nel panorama sportivo dell’epoca. La Ford riesce a conquistare la maratona della Sarthe nel 1965 e la rivince nei due successivi anni, sempre sconfiggendo le rosse di Maranello, ma il Campionato Mondiale lo conquista solamente nel 1966. Le grandi gare di durata, oltre alla Ford, richiamano anche la General Motors, che finanzia la costruzione della Chaparral, altra sfidante dei piccoli costruttori europei. L’arrivo dei colossi americani fa cambiare velocemente lo scenario delle competizioni: aerodinamica, motori potentissimi con cilindrate di oltre sette litri, accessori, pneumatici, e soprattutto ingenti stanziamenti finanziari, danno una improvvisa accelerazione a tutto l’ambiente sportivo.


La piccola Ferrari rimane il baluardo europeo che si difende contro i dollari e la tecnologia del nuovo mondo ed ogni corsa è una sfida che va oltre il puro aspetto sportivo. La Ford con le sue GT MkII e MkIV “con i cilindri grossi come fiaschi” – come affermava spesso Enzo Ferrari, vincono a Daytona, Sebring e Le Mans, mentre le altre vetture conquistano spesso le gare europee spaccando il mondo delle corse in due fazioni: quella pro-Ford e quella pro-Ferrari.



L’atto finale di questa sfida arriva proprio nel 1967, quando la scuderia di Maranello scende in pista con la nuova 330/P4, derivata dalla 330/P3 del 1966 che aveva dovuto soccombere allo strapotere Ford. Il grande giorno arriva alla 24 Ore di Daytona, con le rosse che sfilano in parata sotto la bandiera a scacchi, sancendo la loro superiorità nei confronti del colosso americano, una vittoria che rimarrà nella storia, sicuramente tra le più significative nel lungo palmares di Maranello. L’impresa non riesce a ripetersi a Le Mans, ma a fine anno sarà ancora la P4, con i suoi risultati, a riportare l’alloro mondiale in terra emiliana.


Il Drake, che ama le sfide, ha reagito con la sua solita grinta alle sconfitte degli ultimi anni spronando i propri uomini a realizzare la nuova vettura: “dobbiamo assolutamente batterli quelli là”, usava dire ai suoi collaboratori. Li mette sotto pressione ed alla fine ne esce la più bella vettura prototipo realizzata a Maranello. A fine anno ‘67 la casa di Maranello si può fregiare nuovamente del titolo mondiale sopravanzando le potenti vetture americane del colosso di Detroit con i motori di 7 litri. La 330 P4  è prodotta in soli quattro esemplari con i numeri di telaio 0856, 0858, 0860, e la 0846 che è una 330P3 aggiornata con le specifiche della 330p4. Presentata alla stampa nel cortile di Maranello, il 26 gennaio 1967, pochi giorni dopo ottiene la sua vittoria più clamorosa alla 24 ore di Daytona. Nel catino della Florida è la P4 di Chris Amon e Lorenzo Bandini a tagliare per prima il traguardo, ed il D.S. della Ferrari, Franco Lini, si inventa l'arrivo in parata con tre Ferrari affiancate sulla linea del traguardo: la P4 vincitrice assieme alla vettura gemella di Scarfiotti-Parkes ed alla 412 di Rodriguez-Guichet. Le immagini di quell’arrivo sono entrate nella leggenda delle corse automobilistiche.



La carrozzeria della P 4 realizzata da Piero Dongo, un artigiano modenese, è prevista sia in versione aperta che chiusa, a seconda delle piste, la sua linea sarà definita “meravigliosamente bella” un esempio di design tra i più puri della storia. Il motore posteriore centrale è il 12 V di 3.967 cc con una nuova testata a tre valvole per cilindro, disegnata da Franco Rocchi e già sperimentata con successo sulle monoposto di F.1. Al banco la potenza registrata è di 450 cv, cento in meno delle Ford avversarie, che però montano un motore di 7 litri. In compenso la Ferrari pesa 792 kg contro i 998 kg delle vetture americane. Il cambio, è ritornato ad essere di produzione Ferrari dopo la soluzione ZF usata nella 330 P3. La P4 monta i nuovi pneumatici della Firestone al posto dei Dunlop usati nella stagione ‘66.  



La 330P4,oltre la 24 ore di Daytona, conquista anche la 1000 km di Monza, sempre con Amon-Bandini. A Spa arriva solamente quinta, a Le Mans seconda dopo una rimonta di Parkes sulla Gt 40 di Foyt-Gurney. La gara decisiva dell'anno, per la P4, è la 1000 km di Brands Hatch che si corre sul tracciato inglese il 30 luglio del 1967. Sul gradino più alto del podio sale la Chaparral di Hill-Spence, ma il secondo posto della P4 di Amon-Stewarth, davanti alla Porsche di Mc Laren-Siffert, basta alla casa di Maranello per aggiudicarsi il Trofeo Internazionale Prototipi del 1967.


La Ferrari 330P4 corre nel campionato mondiale solo nella stagione ‘67. Dal 1968 entra in vigore il nuovo regolamento che impone vetture sport di 5 litri prodotte in almeno 50 esemplari. Enzo Ferrari, infuriato per il nuovo regolamento imposto dalla Federazione Internazionale, e non disponendo di una nuova vettura, deicide di non partecipare al campionato del mondo 1968. La 330P4 è andata così in pensione, ma ha lasciato un gran ricordo nei cuori ferraristi. Delle quattro vetture realizzate dalle scuderia di Maranello, due vetture vengono successivamente modificate nelle 350P con il V12 portato a 4,2 litri per correre nella serie Can Am americana con Chris Amon.












sabato 26 febbraio 2022

Walter, leone della CEA.


- di Luciano Passoni

La gara, il podio, la gloria e gli onori della cronaca: sono i piloti, i direttori sportivi o i proprietari dei Team che la normalità vuole personaggi e protagonisti nel battersi per la conquista di campionati e trofei, così come vediamo da spettatori, attraverso la tv o direttamente negli autodromi. Nel puzzle dell’organizzazione di queste gare ci sono però altri, sempre presenti, oscuri e sconosciuti, tanto pronti all’intervento quanto a ritornare, subito dopo, nell’ombra della memoria degli appassionati o dei tifosi. Walter Marabelli è uno di questi: un “leone della CEA”. Una qualifica, che appartiene a lui come ad altri di questa “squadra”, conquistata sul campo, o meglio in pista, a partire dal 1978, per il rapido intervento al via del Gran Premio d’Italia a Monza, a seguito del drammatico incidente che coinvolse tra gli altri Ronnie Peterson, Riccardo Patrese e Vittorio Brambilla.

Sono conosciuti così gli uomini in rosso di questa azienda che si occupa di sicurezza, in particolare nel settore estintori, dalla quale nasce, nel 1970, la Squadra Corse, considerato il team antincendio più efficiente delle gare motoristiche, inclusa la Formula 1. 
Non c’è persona che frequenti l’ambiente che non li conosca o riconosca come insostituibili ed indispensabili protagonisti a bordo pista. Dopo aver cominciato a frequentare i circuiti come volontario, con la Croce Bianca di Melegnano, per assistenza sanitaria, Walter entra nella CEA. Per lui i motori sono una vera passione, non importa se contornati da due o quattro ruote, l’importante è appartenere a quel mondo.

Come tiene a ribadire: "Ho fatto mio il motto della squadra: “Potevamo essere angeli abbiamo scelto di essere leoni”. Non manca lo spirito di sacrificio - continua - se è vero che per molti di voi che vedete in tv o da una tribuna, i vari Alonso, Rossi, Senna e Schumacher, per me sono Fernando, Valentino, Ayrton e Michael, persone, uomini, spesso ragazzi, con i quali puoi parlare, discutere e commentare, qualcuno puoi anche definirlo amico, non manca - ci afferma concludendo - il risvolto della medaglia, le lunghe ore passate sotto il sole, se non piove, il che può essere anche peggio, con tuta, sottotuta, casco e guanti. Se poi per un pilota il tempo è quello di una gara, delle interviste, delle ospitate, magari condite da bellezze e prelibatezze di varia natura, per noi “leoni” il tutto è dilatato nel corso di intere giornate, con l’attenzione e la concentrazione che il compito prevede. Questo non limita però il piacere di essere partecipi di questi eventi, anzi, le mie preferenze vanno alle gare più massacranti, sia di durata che ai rally".

Sfogliamo il suo curriculum che comincia ad essere “importante”: 43 Gran Premi e numerose altre gare endurance e motociclistiche, anche fuori dai confini nazionali, sono il suo orgoglio. Considera Monza e la CEA la sua seconda famiglia, dove la fatica non è un peso, dove smesso i pesanti abiti che garantiscono la sua e l’altrui sicurezza l’unica domanda che è nei suoi pensieri rimane sempre la stessa: "Quando si ricomincia?".

(Se volete diventare un “Leone” segnaliamo www.ceasquadracorse.it)

lunedì 21 febbraio 2022

"Gianni Agnelli e Ferrari, l’eleganza del mito", una mostra per i 100 anni dell'Avvocato


- di Massimo Campi
- foto di © Raul Zacchè

Gianni Agnelli e la Ferrari, un amore sin dalla gioventù dell’Avvocato con una unione che si è concretizzata nello storico accordo del 1969, quando Enzo Ferrari ha ceduto le quote dell’azienda e della Squadra Corse alla Fiat.

“Gianni Agnelli e Ferrari. L’eleganza del mito” è un omaggio della Casa di Maranello a un suo grande punto di riferimento, prima come affezionato cliente, poi come interlocutore privilegiato e partner, in occasione del centesimo anniversario dalla sua nascita. 
La mostra, allestita nell'Officina del Museo Enzo Ferrari di Modena, riunisce per la prima volta le fuoriserie realizzate da Ferrari e personalizzate in stretta collaborazione con Gianni Agnelli. Una collezione unica, che testimonia una sintonia durata oltre cinquant’anni fra due delle più carismatiche e autorevoli figure del ventesimo secolo.
Grande appassionato ed estimatore sin da giovane del Cavallino Rampante, l’Avvocato Agnelli ha sempre proposto con garbo e rispetto delle versioni molto speciali e personalizzate di alcuni modelli usciti dalle officine di Maranello. Enzo Ferrari d’altra parte sapeva che l’influenza, il gusto estetico e la personalità di un cliente molto vicino alla Fabbrica, abituato a lavorare su progetti esclusivi, ne poteva determinare le scelte fortunate e lungimiranti. Da questo loro stretto rapporto sono nate automobili dal fascino irripetibile, che Gianni Agnelli guidava con rigoroso understatement.

È il caso della Ferrari 166 MM, che al Salone di Torino del 1948 tanto colpì Agnelli per la sua eleganza essenziale da definirla con il termine inedito “barchetta”, che da allora identifica nel settore dei motori tutte le scoperte da corsa. Finemente personalizzata nei colori verde e blu e negli interni, è la prima fuoriserie di Maranello per l’Avvocato.
Fu poi la Ferrari 212 Inter del 1952 a essere adattata alla personalità di questo cliente speciale, con sofisticate nuance e dettagli che faranno scuola: il bicolore blu 456 di “famiglia” accostato al bianco magnolia del padiglione, oltre a due potenti fari pensati per il piacere della velocità nelle ore notturne.

La mostra prosegue con lo stupendo coupé senza tempo 375 America, realizzato da Ferrari nel 1955 grazie alla simbiosi creativa con Battista “Pinin” Farina. L’Avvocato ne fu subito conquistato e rese unico il suo modello facendo realizzare, fra le altre ricercate finiture d’interni, un prezioso cronografo che volle posizionato al centro del tunnel.
Il rapporto ormai consolidato fra Gianni Agnelli ed Enzo Ferrari segnò un nuovo capolavoro nel 1959 con la Ferrari 400 Superamerica. Questo pezzo unico, che ammiriamo al Museo Enzo Ferrari, allestito da Pininfarina, conferì alle granturismo Ferrari una nuova impostazione stilistica rispetto al passato.

Al Museo Enzo Ferrari è esposta poi la berlinetta 365 P Speciale del 1966, plasmata dal mondo delle competizioni che Pininfarina ha saputo perfettamente interpretare in due “prototipi” a tre posti con guida centrale. 
Quello commissionato da Gianni Agnelli si distingue per l’elegante livrea color argento con una modanatura nera che corre lungo la linea di cintura.
Un’altra icona dalla linea rivoluzionaria che non poteva mancare nella collezione di Gianni Agnelli è la Ferrari F40, da lui ordinata nel 1989 in una versione speciale che si distingue per il tessuto nero dei sedili e la frizione elettronica Valeo.

Nel 2000, sulla base stilistica della 360 Spider, Agnelli affidò a Pininfarina il progetto di una barchetta ancora più estrema in un esemplare unico. 
Con la livrea grigio argento accompagnata da eleganti toni blu, questa barchetta venne donata a Luca di Montezemolo come regalo di nozze.
Finita l’epoca di Enzo Ferrari, sarà Gianni Agnelli ad ereditare il carisma del Drake nelle competizioni. Decide di richiamare Luca di Montezemolo a Maranello, rivoluziona tutto il reparto corse ed assume “non certo per un tozzo di pane” il campione del mondo Michael Schumacher che riporterà in alto la Ferrari nel mondo delle corse.
Conclude la mostra la monoposto di Formula 1 del 2003, la sintesi di un percorso sportivo e tecnologico straordinario. La Scuderia la presentò il 7 febbraio 2003 dedicandola a Gianni Agnelli, scomparso il 24 gennaio. Per tutta la comunità Ferrari fu il più sentito riconoscimento a un indimenticabile cliente partner e a un raffinato, discreto, determinante compagno di viaggio.

martedì 25 gennaio 2022

F1 / Williams FW08, la fine delle monoposto aspirate


  • di Massimo Campi
  • foto di Raul Zacchè / Actualfoto
Nel 1982 la Formula 1 sta prepotentemente entrando nell’era dei motori sovralimentati. I team principali, Renault e Ferrari in testa, sono passati alle unità turbo ma i potenti motori non sono ancora affidabili ed il vecchio Ford Cosworth continua ad avere grosse chance di successo soprattutto tra i team anglosassoni. La nuova FW08, progettata da Patrick Head e Franck Dernie, è la evoluzione della vincente FW07. La monoposto sfrutta i principi della fluidodinamica ad effetto suolo, è una vettura semplice, molto pulita nell'aerodinamica, con il telaio monoscocca in lamiera accoppiato al classico Ford Cosworth DFV e la trasmissione Hewland. Inizialmente il progetto pensato da Patrick Head prevede una monoposto a sei ruote, 2 anteriori e 4 posteriori di uguali dimensioni con lo scopo di favorire lo scorrimento dei flussi d'aria sotto la vettura e al contempo diminuire la resistenza all'avanzamento con una sezione frontale ridotta ed un serbatoio molto alto per avere un passo contenuto.

La Williams realizza il primo prototipo, ma la FIA boccia le vetture a sei ruote e soprattutto le quattro ruote motrici. Patrick Head è costretto a fare marcia indietro, ritornare ad una configurazione classica e la scocca della FW08 viene adattata ai nuovi regolamenti pur sfruttando le caratteristiche dell’effetto suolo. La monoposto sarà l’ultima vettura ad effetto suolo della Casa inglese, inizia a correre a stagione 1982 inoltrata, un anno segnato da incidenti, colpi di scena e la scomparsa di Gilles Villeneuve. 
La FW08 si basa su un telaio monoscocca più compatto e resistente della FW07, sempre realizzato in lamiera di alluminio incollata e rivettata, mentre altri costruttori sono già passati a strutture in pannelli di honeycomb. La differenza più significativa tra FW07 e FW08 è una riduzione del passo di 10 cm.

Dal 1981 vengono vietate le minigonne scorrevoli ma sono ammesse solo quelle fisse e nella FW08, per fare lavorare meglio l’aerodinamica e mantenere la tenuta tra le minigonne fisse e la strada, le sospensioni sono state ulteriormente irrigidite mettendo a dura prova la rigidezza torsionale del telaio. Il V8 Ford piccolo, compatto e leggero rispetto ai motori turbo, ha consentito la costruzione di una vettura molto leggera sotto i limiti imposti di peso. Come le altre squadre con motore Cosworth, anche la Williams ha inizialmente sfruttato i freni raffreddati ad acqua, una soluzione con l’unico scopo di avere una zavorra mobile che viene subito rilasciato in gara, un sistema presto bandito dalla Federazione. La stessa Williams ne fa le spese, con Rosberg che, giunto secondo viene squalificato al GP del Brasile. Il culmine della diatriba viene raggiunto a Imola dove la totalità delle squadre inglesi, tranne la Tyrrell per un riguardo al suo pilota italiano Michele Alboreto, boicotta l'evento per protesta. La FISA però non cede e i team inglesi devono eliminare il famigerato serbatoio dell'acqua.

La stagione mondiale inizia con le FW07C guidate da Keke Rosberg e Carlos Reutemann, la FW08 entra in gioco nelle gare europee con Derek Daly che ha preso il posto di Reutemann ed il finlandese quello di caposquadra. Partito con un ottimo terzo posto in griglia, Rosberg si piazza secondo al debutto della FW08 a Zolder, la gara oscurata dall'incidente mortale di Gilles Villeneuve in qualifica. Le vetture con i motori sovralimentati, Ferrari e Renault dominano i turni di prove, ma in gara devono spesso soccombere lottando contro la scarsa affidabilità delle loro turbine. La tattica della Williams e di Rosberg è quella di sfruttare l’affidabilità del V8 Cosworth, una strategia che paga, mentre i diretti rivali sono vittime di ritiri e di incidenti. Oltre al dramma di Villeneuve a Zolder, Pironì, in testa al mondiale, si frattura le gambe in prova ad Hockenheim finendo la sua carriera in Formula 1. Rosberg, pur non vincendo riesce sempre a rastrellare podi e punti per il mondiale. Riesce a salire sul gradino più alto del podio nel GP di Svizzera a Digione, dopo essere partito con un modesto ottavo posto in griglia. Nonostante abbia ottenuto una sola vittoria, la costanza di Rosberg e la sfortuna dei principali rivali si sono rivelate sufficienti per conquistare il Campionato del Mondo.

A fine stagione è leader del mondiale e come unico avversario ha la McLaren di John Watson. La resa finale è nel parcheggio del Caeser Palace di Las Vegas. È il 25 settembre 1982, la Williams FW08 di Keke Rosberg taglia il traguardo con un umile quinto posto, una gara all’apparenza incolore, ma è il risultato utile per vincere il titolo mondiale della stagione. Sul primo posto del podio finisce il giovane Michele Alboreto, la nuova speranza, ormai una certezza italiana di avere un giovane pilota tra i top driver della massima formula. Keke sale sul podio assieme a Michele, Diana Ross, la famosa cantante americana è la madrina della gara, premia i due protagonisti che rappresentano una grande sorpresa nel mondo della massima formula di quegli anni.

La storia della FW08 continua nella stagione successiva, ma nel 1983 l'aerodinamica dell'effetto suolo è stata del tutto bandita con l'introduzione di un fondo piatto obbligatorio. La FW08C sembra molto diversa dalla vettura che ha vinto il mondiale con il finlandese, ma in realtà utilizza lo stesso telaio con le fiancate modificate. Abolendo l’effetto venturi i profili laterali non hanno più bisogno di percorrere l'intera lunghezza dell'auto ma servono solo a contenere i radiatori per il raffreddamento.

Intanto, nel 1983, le monoposto turbo oltre ad essere potenti e veloci diventano anche affidabili, Keke Rosberg e Jaques Laffitte, che ha sostituito Daly, possono solo lottare per le posizioni di rincalzo, ma Rosberg mette a segno una vittoria sulle strette strade di Montecarlo dove sfrutta tutte le doti di leggerezza e tenuta di strada della Williams aspirata. A fine stagione Frank Williams stringe l’accordo con la Honda che vuole rientrare nella massima formula con il suo nuovo motore turbo e nasce la futura monoposto FW09 che porterà nuovi successi alla squadra inglese.

Con la FW08, nel 1983 finisce un’epoca, è l'ultima vettura con il Cosworth V8 DFV e l’effetto suolo a vincere il campionato del mondo.

mercoledì 19 gennaio 2022

F1 / F92A, la Ferrari con il doppio fondo


  • di Massimo Campi
  • foto di Raul Zacchè-Actualfoto
Ha la forma di un caccia, l’aerodinamica ha la precedenza su tutta la meccanica, ma la Ferrari F92A, pilotata da Jean Alesi ed Ivan Capelli si rivela una monoposto molto inferiore alle aspettative. La stagione 1992, per la fabbrica di Maranello, rappresenta un anno di grande svolta, purtroppo non positiva. Luca di Montezemolo è appena tornato in terra emiliana al comando di tutta la fabbrica e vuole risultati, sia commerciali che sportivi, lanciando un nuovo corso che avrà i suoi frutti tra qualche anno.
Al timone del reparto corse c’è Claudio Lombardi, una squadra dilaniata da faide interne che hanno portato al licenziamento di Alain Prost e di Cesare Fiorio, mentre la progettazione della nuova vettura è affidata al duo Harwey Postlethwaite e Jean-Claude Migeot che si occupa soprattutto della parte aerodinamica, sempre più importante nella Formula 1 di quegli anni.
Nelle stagioni precedenti, tra il 1989 e il 1991, le monoposto di Maranello sono nate e sviluppate attorno alla base della Ferrari 640 F1, la vettura di John Barnard, con il V12 di 3.5 litri e l’innovativo cambio sequenziale che è arrivata vicino a titolo mondiale con Prost. La vettura per il 1992, la F92A è una monoposto completamente nuova che non condivide nessun particolare con il recente passato.

La Williams e la McLaren hanno fatto notevoli progressi nel 1991, ed a Maranello viene decisa la realizzazione di progetto innovativo. Con l’obbiettivo di massimizzare l'efficienza del telaio con la conformazione aerodinamica vengono ridisegnati tutti i componenti principali, carrozzeria, motore e cambio, con l’intenzione di allineare la vettura agli ultimi dettami aerodinamici introdotti dalla March 881/Leyton House di Adrian Newey e dalla Tyrrell 019 del duo Postlethwaite-Migeot passati poi alle dipendenze di Maranello. Migeot è un esperto di aerodinamica ed applica alcune soluzioni adoperate in aeronautica come il musetto anteriore rialzato, collegato all'ala anteriore con due montanti paralleli, e le prese d'aria delle fiancate, di forma ovoidale e separate dal corpo vettura. La soluzione è spesso impiegata nei caccia a reazione militari dove le prese d'aria dei motori sono sempre staccate dalla fusoliera per evitare l'ingestione dello strato limite. Quando viene presentata la F92A prende subito il nomignolo di caccia, il suo aspetto, in verità molto bello si basa su fiancate particolari, scavate sotto le prese d’aria, molto strette e staccate dall’abitacolo. 

La soluzione aerodinamica serve per realizzare un condotto tra il fondo della vettura e quello delle pance, con l’obiettivo di ricreare l’effetto Venturi e recuperare valori di deportanza. Tra le novità c’è anche la sospensione anteriore con un mono ammortizzatore per entrambe le ruote invece di due. Postlethwaite e Migeot hanno colpito nel segno almeno all’apparenza, l’auto è innovativa, forse troppo ed appena messe le ruote in pista si rivela un vero disastro. Le soluzioni studiate da Migeot hanno dato eccellenti risultati in galleria del vento, ma all’atto pratico si dimostrano controproducenti. La minima variazione di altezza dal suolo rende il doppio fondo inefficace, togliendo gran parte del carico aerodinamico alla vettura. La F92A risulta difficile da domare, in alcune situazioni i piloti si lamentano del sottosterzo sulle curve veloci e del sovrasterzo su quelle lente, con la sospensione anteriore che causa molti guai nella precisione di guida. Le scarse prestazioni vengono addebitati soprattutto alla parte telaistica, ma anche la meccanica ha dei grossi problemi che causano numerose tensioni all’interno della squadra.

Il motore della F92A è una evoluzione di quello della stagione precedente sviluppato dal tecnico Paolo Massai. Il V12 di 3.500 cc ha sempre l’angolo di bancata di 65° con la testata a cinque valvole per cilindro comandata da due alberi a camme, ma ha ancora il richiamo con molle tradizionali al posto del sistema pneumatico in uso presso i top team avversari. Il richiamo tradizionale con la molla, oltre un certo regime di rotazione diventa inefficace perché non riesce più a garantire il contatto con la camma, causando una chiusura ritardata della valvola. Con una mancanza dell’incremento del numero di giri il V12 Ferrari rimane plafonato nelle prestazioni, inoltre viene depotenziato di circa 35 cv per avere una maggiore affidabilità. Al motore denominato 038, viene abbinato il cambio semiautomatico dotato di solo 6 rapporti (più retromarcia) mentre gli altri motoristi hanno giù sviluppato unità a sette rapporti per avere una migliore distribuzione della potenza e non incorrere in abbassamenti di giri visti gli alti regimi di rotazione.

La F92A si rivela un vero disastro, lenta, poco gestibile ed inaffidabile. La squadra inizia a fare vari esperimenti, ma nulla riesce a risollevare le sorti delle stagioni. Due i piloti di Maranello, Jean Alesì ed il nuovo arrivato Ivan Capelli. Il francese si è già ambientato con le guerre intestine che imperversano a Maranello, l’italiano invece rimane vittima delle tensioni all’interno della squadra e ci rimetterà il posto e la carriera.

Per il secondo anno consecutivo la Ferrari non ottiene né una vittoria, né una pole position, né tanto meno un giro più veloce in gara. Jean Alesì salva la faccia cogliendo due terzi posti nel Gran Premio di Spagna e nel Gran Premio del Canada, Ivan Capelli conquista due soli piazzamenti a punti: il quinto posto in Brasile e il sesto in Ungheria. Nelle ultime due gare è sostituito dal terzo pilota Nicola Larini, ma anche lui non riesce a cogliere nessun risultato utile con la F92A confermando i problemi incontrati in tutta la stagione.

Nel 1992 la Ferrari raccogli solo 21 punti, pari a meno della metà di quelli ottenuti nel 1991, retrocedendo dal terzo al quarto posto nella classifica costruttori, dietro anche alla Benetton, oltre che a McLaren e Williams. Il confronto è spesso imbarazzante con gli altri top team, ma anche con le Dallara della Scuderia Italia che montano il V12 Ferrari, in versione clienti con le specifiche della stagione precedente. La vettura della scuderia bresciana fa registrare velocità maggiori in rettilineo rispetto a quella di Maranello, a dimostrazione che manca potenza nel V12 in versione 1992.

Con il passare degli anni sono emersi alcuni particolari su quella vettura e sulla situazione di Maranello in quella stagione particolare. Luca Montezemolo era ritornato a Maranello, al comando di tutta la Ferrari, dove aveva trovato, a suo dire, una situazione disastrosa sia dal punto di vista della produzione sia da quello sportivo. Con lui inizia una grande rivoluzione che porterà a cambiarei vertici della Ferrari ed ai grandi risultati dell’epoca Todt/Brown/Schumacher.

In una intervista, dopo quasi tre decenni, sono Jean Alesì e Jean Claude Migeot che tracciano un profilo di quella vettura e della situazione. “La F92 A non aveva problemi aerodinamici, ma di motore e di sospensione anteriore, perché in realtà generava molto carico aerodinamico – sono le considerazioni del progettista e del pilota - il motore soffriva di blow-by, vale a dire c’era un trafilaggio di olio dalle fasce elastiche in camera di combustione che faceva perdere 40-50 cavalli, ma nella tradizione del Cavallino non si poteva dire che era il 12 cilindri a non andare e le colpe di un’annata storta erano state attribuite solo alla macchina. E’ stato un peccato perché il concetto era interessante. La macchina era molto innovativa, ma i problemi erano principalmente di natura meccanica con la sospensione anteriore a mono-ammortizzatore e la mancanza di potenza del motore per il blow-by, tanto che si doveva usare un serbatoio dell’olio supplementare per sperare di non finire i GP senza lubrificante.”

Finisce con due grosse delusioni la stagione 1992 della Ferrari. Nella storia del cavallino rampante la F92A risulta una delle peggiori vetture mai prodotte a Maranello, seconda solo alla 312T5 e la speranza di vedere un nuovo pilota italiano vincente sulle rosse, dopo Michele Alboreto tramonta malamente con Ivan Capelli che diventa uno dei capri espiatori di tutta la vicenda.

domenica 2 gennaio 2022

Hans-Joachim Stuck: correre, una passione di famiglia


- di MASSIMO CAMPI
- foto di RAUL ZACCHÈ - ACTUALFOTO

Il 1 gennaio 1951 nasce a Grainau in Germania Hans-Joachim Stuck. La passione del giovane pilota è una eredità di famiglia, suo padre, Hans Stuck, è stato uno dei più famosi piloti delle frecce d’argento Auto Union anteguerra. La carriera di Hans Joachim inizia con i kart, per poi passare alle quattro ruote nel 1969 con le turismo BMW. Vince la 24 Ore del Nurburgring, e nel 1972 conquista la 24 Ore di Spa in coppia con Jochen Mass. L’avventura con le monoposto inizia nel 1973 al volante di una March e nel 1974 è vicecampione europeo dietro a Patrick Depailler, conquistando ben quattro vittorie. La casa di Bicester lo fa debuttare nella massima formula, nel GP di Argentina con la 741-Ford e nel 1974 conquista anche punti in campionato con il 4° posto in Spagna ed il 5° a Kyalami. 


La March, nel 1975, continua a far correre Stuck sia in F.1 che in F.2 dove eredita l’abitacolo della 751 di Lella Lombardi nelle ultime cinque gare della stagione. La carriera ha anche una parentesi americana al volante di una BMW nel campionato IMSA. 
Stuck è considerato uno dei migliori piloti tedeschi, nel 1976 corre con un programma analogo della stagione precedente, condito da due vittorie in F.2 ad Hockhenheim, da un 4° posto a Monaco ed un 5° a Watkins Glen. Finita l’avventura con la March, Stuck eredita il posto di Carlos Pace alla Brabham per il 1977 che sarà la sua migliore stagione in F.1 dove conquista due terzi posti a Zeltweg ed Hockenheim con la monoposto britannica motorizzata dal 12 cilindri boxer dell’Alfa Romeo. Le ultime due stagioni nel circus saranno deludenti per Stuck. Con Shadow e ATS sarà spesso nelle retrovie. 
Continua a correre con le ruote coperte, come uomo di punta della BMW nelle gare turismo. Hans Stuck nelle gare di durata ottiene i successi e le soddisfazioni negate con le monoposto. Nel 1975 vince la 12 Ore di Sebring su BMW. Nel 1981 vince la 1000 km del Nürburgring con una BMW della GS Racing e nel 1984 la 1000 km di Imola con il team Brun Motorsport.
Nei due anni seguenti vince il Campionato mondiale per Vetture Sport, nonché la 24 Ore di Le Mans del 1986, vittoria quest'ultima bissata anche nel 1987, sempre alla guida della Porsche 962.


Vince nuovamente la 12 Ore di Sebring nel 1986 e nel 1988, entrambe a bordo di una Porsche 962. Nel 1989 corre nuovamente nel campionato IMSA e nel 1990 conquista il titolo nel DTM su Audi V8. Continua negli anni novanta nel campionato Turismo poi nel ITC guidando l'Opel Calibra V6, infine nel Campionato FIA GT, su McLaren F1 GTR del Team BMW Motorsport, dal 1998 al 2000 guida per lo stesso team la BMW V12 LMR impiegata nella 24 Ore di Le Mans e nell'ALMS, in quest'ultimo campionato continua a gareggiare fino al 2003 per squadre minori. Nel 2004 rivince dopo 35 anni la 24 Ore del Nürburgring. Attualmente Stuck continua ad essere presente negli eventi storici come testimonial di Audi e Porsche.


Foto di RAUL ZACCHÈ - ACTUALFOTO

lunedì 20 dicembre 2021

Romolo Tavoni, il ragioniere delle corse


(riproponiamo un articolo di Luciano Passoni redatto e pubblicato in occasione di un incontro con  Romolo Tavoni, scomparso un anno fa)

> di Luciano Passoni

La figura è elegante, a dispetto dell’età e di qualche acciacco riceve gli amici o quanti vogliono incontrarlo molto volentieri. Apre la porta della sua casa e ci accoglie con una voce ancora austera e ferma. Il taccuino, le foto, il registratore o lo smartphone, c’è l’imbarazzo per il cronista su che cosa fissare quel fiume in piena di ricordi, aneddoti e episodi che racconta con passione, quasi fossero successi ieri, ed invece abbracciano più di mezzo secolo di storia dello sport auto, vissuta dalle stanze dei bottoni all’asfalto delle piste. Sempre in prima linea, meglio in pole position visto l’argomento, per lui arrivato quasi per caso in un mondo che non conosceva. Fresco di diploma comincia alle Officine Alfieri Maserati, poi prevale il desiderio del posto fisso e sicuro, e si ritrova giovane ragioniere di una banca. E’ l’Istituto Bancario che lo manda in missione alla Ferrari, Il compito è di tenere sotto controllo i conti dell’azienda del cavallino che passavano attraverso un prestito dell’Istituto stesso. Lavora, letteralmente parlando, al fianco del signor Enzo, nella stessa stanza con un tavolo, due sedie ed un armadio. Il caratterino del commendatore non tardò a manifestarsi, ma niente di preoccupante quando urlava, il problema vero era quando stava in silenzio. Finito il suo compito ed in procinto di tornare alla sede Enzo Ferrari, che evidentemente lo ritiene prezioso, lo assume direttamente, così comincia la sua “carriera”. Non esiste un ruolo ed una mansione, si lavora e basta, in azienda o sui circuiti, in Italia e nel resto del mondo. Sono gli anni in cui il cavallino rampante diventa leggenda, con le vittorie a grappoli nelle corse più importanti, dalla formula uno agli sport prototipi. Trionfi che servono ad incentivare le vendite. Ricorda ancora bene come nel mese successivo ad una vittoria di Le Mans gli ordini raddoppiavano, osservazione che ci riporta il pragmatico ragioniere sempre attento ai conti. Ma ovviamente è la parte sportiva che prende il sopravvento negli episodi, nelle storie e nelle vicende umane che hanno arricchito e riempito la sua esistenza di sensazioni e di emozioni irripetibili. Conoscendo la nostra provenienza inevitabile parlare di Eugenio Castellotti, la distanza del tempo attenua il dolore ma non la memoria, per lui e per il gruppo di piloti definiti “gli indisciplinati” (cit. da Luca Delli Carri), storie di vite vissute nel mito della velocità, consapevoli che ad ogni curva un rischio, con il traguardo che troppo spesso non era rappresentato dalla bandiera a scacchi. Con loro un elenco infinito di nomi, di uomini e di donne, vicende intrecciate, nel bene e nel male, nelle gioie e nelle tragedie. Tanti episodi finiti in dramma e qualche curiosità degna di telefilm d’azione, come si diceva una volta. Così è il racconto del G.P. del Venezuela che sanciva la vittoria nel Mondiale Marche del 1957, a scapito di Maserati, l’avversario scomodo posto all’altro lato della via Emilia. La missione di vincere gara e mondiale è portata felicemente a termine. Il problema è portar fuori da quel paese il trofeo destinato al vincitore, qualche chilo d’oro che suscita l’interesse di molti e mette nel dubbio l’onestà di tanti. Viene studiato un percorso alternativo dal circuito all’aeroporto, con l’aiuto di un residente italiano che lavora per una compagnia petrolifera e tra autocisterne, bagagliai, doppifondi e finte valigie il trofeo arriva nella bacheca di Maranello. E’ l’ATS con il gruppo di tecnici e dirigenti fuoriusciti da Ferrari che lo allontana dall’azienda. L’ avventura finisce molto presto, errori madornali nella conduzione finanziaria e mondo delle corse sembra destinato per lui a restare un ricordo del passato. Un uomo con la sua esperienza e capacità non può non destare interesse e arriva la chiamata dell’ACI Milano, che significa in sostanza Monza. Romolo Tavoni diventa così il braccio esecutivo di Luigi Bertett, presidente del sodalizio milanese, sarà lui a tradurre in pratica un’idea del dirigente milanese che si rivelerà geniale: la creazione di una formula addestrativa per giovani piloti. Nasce così la Formula 875 Monza e anche il mito di Tavoni, associato per sempre a quel straordinario periodo sportivo. Un progetto che non avrà più eguali, fatto non solo da un’idea di vettura, ma legato alla logistica del circuito, alla giornata di gare e all’economia dei partecipanti, vedi prove gratuite e semplicità regolamentari. Con il tempo e successivi passaggi la categoria ha poi perso il suo valore formativo e, ad oggi, possiamo considerarla come una eredità che è andata purtroppo dispersa. Non è certo qualche campionato monomarca, più o meno sostenuto da federazioni od enti sportivi generalisti, con costi comunque insostenibili, che possa paragonarsi al glorioso passato. Da qui forse anche la mancanza di piloti italiani agli alti livelli internazionali nel settore monoposto. Tutto questo lo vede naturalmente sempre attento e curioso, ma il tempo trascorso è veramente tanto e il rammarico non può tradursi, per la sua generazione, in azione, mentre per quelle nuove sembra contare di più l’apparire che l’essere, con le scuole piloti sostituite dagli addetti stampa e dai manager, attenti al colore della vettura o del casco, alla location, alle ospitality e con la pratica in pista comprata su Google Play. Per rifarci da questo velo di amarezza, torniamo con lui al mito del passato e ripassiamo, sfogliando il libro Melegnano Motori, le tante storie che riguardano proprio l’epopea delle “pettarelle”. Poi la nostra cronaca della tappa di Lodi della Mille Miglia gli ricorda un suo ultimo passaggio da Guidizzolo (MN), cittadina che vide l’incidente di De Portago con la Ferrari, episodio che mise fine, oltre alle vite delle vittime, alle corse su strada in Italia. Un ricordo struggente, il riconoscimento del corpo che dovette fare nella sua qualità di rappresentante della Ferrari, del pilota spagnolo, uno degli “indisciplinati”, che al pari di Eugenio Castellotti diede molto lavoro alla stampa “rosa” dell’epoca. Nell’occasione lo lasciò di stucco la visione del monumento, posto in quel luogo; non si capacitava dell’aspetto poco curato, irrispettoso per i caduti di quella tragedia, tanto da recarsi in Comune, non solo per protestare, ma offrendosi per le spese occorrenti a ridare dignità a quella gente e a quell’episodio. Finisce così, tra dediche ed autografi; vuole anche il nostro sul libro che gli abbiamo donato e che oggi è là, su quella mensola prestigiosa, insieme a chissà quali storie e quali scrittori. Lo abbracciamo, non solo idealmente, e ci invita a ritornare, quando in realtà noi non vorremmo proprio andarcene, per sentire e gustare chissà quante altre storie. Lui prende la bandiera a scacchi e sale sul podio di Monza, la sventola con autorità scrivendoci un’ultima dedica: “Questa è la parte che mi ha dato più soddisfazione, Romolo Tavoni”. 

(P.S. Ringraziamo l’amico Lello Soncini che ci ha “raccomandato”, aiutato e accompagnato in questo incontro. La dedica di Romolo Tavoni (foto in alto) è sulla fotografia posta sul libro “TROFEO CADETTI: una storia che continua”, di Massimo Campi e Roberto Chinchero – Promit Edizioni – 1996)

Romolo Tavoni, a sinistra, con Luciano Passoni
e Lello Soncini, storico ufficiale di gara a Monza

martedì 23 novembre 2021

F1/ Wing Car, il sopravvento dell’aerodinamica


- di Massimo CAMPI
- foto di Raul ZACCHE'/Actualfoto

Nelle Formula Uno di tre litri, uno dei problemi che viene presto alla luce riguarda lo scarico della potenza a terra e la possibilità di aumentare le velocità in curva. La soluzione arriva dall’aerodinamica e gli alettoni abbondano sempre più sulle vetture da corsa. Dopo i primi esperimenti molto improvvisati degli anni ’60, con alettoni posticci fissati pericolosamente sui portamozzi delle vetture, le monoposto hanno cambiato forma, da semplici “sigari”, con scocche che avevano una vaga forma di tubo, ed i radiatori piazzati sul muso davanti, si è passati alle forme a cuneo della Lotus 72, con radiatori laterali e gli alettoni sempre più grandi per aumentare i carichi in curva e le conseguenti velocità. Però alettoni sempre più grandi aumentano la sezione delle monoposto con relativi problemi di penetrazione aerodinamica. In pratica, spesso per andare forte in curva si va piano in rettilineo.

La grande rivoluzione è però ancora una volta merito di Colin Chapman che vuole una nuova vettura degna di sostituire i fasti della 72. Tornato dalle vacanze estive del 1975, dalla sua villa di Ibiza, crea un piccolo team di progettisti guidato da Tony Rudd e composto da Peter Wright, esperto in aerodinamica, Ralph Bellamy, disegnatore, Charles Prior, esperto di galleria del vento per fare esperimenti sull’aerodinamica dei flussi nella galleria del vento dell’Imperial College di Londra.

L’intuizione di Colin Chapman,  ex aviere della RAF, è legata al profilo alare impiegato per sostentare gli aerei in volo, dove la pressione e la velocità di un fluido in un determinato punto sono inversamente proporzionali tra loro. In pratica se aumenta la pressione si riduce la velocità del fluido e viceversa e quindi le ali sostengono l’aeroplano generando una zona di depressione sopra l’ala. L’aria urtando la superfice dell’ala si divide in due flussi, uno superiore ed uno inferiore. Il flusso superiore compie un tragitto maggiore rispetto a quello inferiore e deve quindi scorrere più velocemente per ricongiungersi alla fine dell’ala con quello inferiore generando una zona di pressione inferiore rispetto a quella sotto che crea la portanza dell’ala facendo stare in aria l’aereo. All’aumentare della velocità dell’aria aumenta la zona di depressione nella parte superiore dell’ala generando la maggiore portanza dell’ala. Chapman applica questo principio, ma al contrario, studiato già nel 1700 dall’Abate Bernoulli per creare una zona di depressione sul fondo delle scocca. Configurando le pance della monoposto come un profilo alare rovesciato si crea un aumento di pressione sopra la scocca ed una depressione sotto, in pratica si crea deportanza, con un aumento del carico all’aumentare della velocità, senza avere la resistenza dinamica che hanno gli alettoni. I vari studi in galleria del vento dimostrarono che l’intuizione di Chapman era giusta, ma per essere efficace dovevano essere sigillati i condotti laterali per impedire vortici d’aria che rendessero vano l’effetto della deportanza.

Nasce così la Lotus 78, la prima vettura ad effetto suolo, o anche detta “wing car”, vettura ala. Alla presentazione stampa la nuova creazione della Lotus presenta fiancate larghe e lunghe per tutto l’abitacolo, con delle minigonne composte da spazzole che toccavano terra. Colin Chapman non aveva ancora trovato un materiale abbastanza resistente che reggesse all’attrito con l’asfalto, ma le spazzole impedivano comunque gran parte del passaggio laterale di aria e soprattutto impedivano di capire la nuova conformazione delle fiancate a profilo alare rovesciato. Nel 1977 debutta la nuova 78, i collaudi sono effettuati da Mario Andretti che inizialmente è scettico sul comportamento della vettura fino a quando Peter Wright trova la soluzione per sigillare in modo adeguato le fiancate con delle minigonne a scorrimento, precaricate con delle molle e rivestite sul fono con un supporto ceramico molto resistente all’abrasione. Una volta messa a punto la Lotus 78 diventa la vettura da battere, ma intanto Nicky Lauda aveva già accumulato molti risultati che gli consentono la vittoria del suo secondo titolo mondiale con la Ferrari.

Dall’esperienza positiva della Lotus 78 nasce la nuova 79, la monoposto del dominio quasi assoluto della casa inglese per il 1978. Mario Andretti inizia il mondiale con la vecchia vettura, poi passa alla nuova e vince il titolo mondiale, Ronnie Peterson arriva secondo nonostante perde la vita nel dramma di Monza. La Lotus 79 ha una deportanza superiore del 25% rispetto alla sua progenitrice. Ha un peso di 575 Kg, ma a 240 km/h ha una deportanza di oltre 900 kg. Intanto gli avversari capiscono il vantaggio dato dalla soluzione aerodinamica di Chapman e ben presto adattano le vetture o ne realizzano delle nuove, per cercare di contenere i distacchi dalle nere Lotus.

La soluzione che ha fatto più scalpore è quella di Gordon Murray, il geniale progettista sudafricano della Brabham. Memore dell’esperienza fatta dalla Chaparral piazza una ventola di estrazione dell’aria sulla Brabham BT46B che domina il Gran Premio di Svezia con Niky Lauda. Alle verifiche Gordon Murray e Bernie Ecclestone passano la ventola come dispositivo per il raffreddamento del 12 cilindri boxer realizzato da Carlo Chiti. La ventola è comandata da un albero del cambio ed aumenta i giri all’aumentare della velocità, mentre il fondo è sigillato da minigonne che impediscono l’ulteriore introduzione di aria laterale. All’arrivo tra i più felici era Carlo Chiti che era riuscito a portare alla vittoria un motore Alfa dopo il 1951, ma ben presto la Federazione Internazionale dichiarò fuori legge la ventola, vero dispositivo aerodinamico mobile e quindi vietato dal regolamento tecnico.

Finita subito l’esperienza della “fan car” i progettisti si rimisero al lavoro per ottimizzare i flussi del sottoscocca ed aumentare i valori di deportanza. Nel 1979 i valori raggiungono i 1.200 kg, con vetture che hanno un peso di 585 kg, ma in quella stagione succedono altri avvenimenti tecnici importanti per la Formula Uno. Jean Pierre Jabouille vince a Digione il primo Gran Premio con la Renault Turbo, e Jody Scheckter riporta la Ferrari in cima alla graduatoria mondiale. La 312T4 con il 12 cilindri boxer, largo e piatto, non può sfruttare a pieno l’effetto suolo. La sezione interna delle fiancate non può essere profilata come sulle monoposto dotate del V8 Cosworth molto più stretto, ma la monoposto progettata da Mauro Forghieri ha una carrozzeria larga e piatta, è molto affidabile e monta le nuove gomme radiali Michelin molto più performanti delle Good Year che aumentano comunque la tenuta in curva ed annullano la minore deportanza rispetto alla concorrenza.

Intanto Colin Chapman continua nella sua forsennata ricerca del massimo effetto suolo, ma dopo la Lotus 79, le sue discendenti non riescono più a prevalere sulla concorrenza. Wright ed il suo team di progettisti realizzano la nuova 80, senza appendici aerodinamiche ma con minigonne a tutta lunghezza. Con questa vettura viene introdotta per la prima volta il restringimento della parte posteriore, la cosiddetta forma a coca cola, che assomiglia molto al profilo della bottiglia della bevanda americana. Il tutto per migliorare i flussi sotto scocca ed avere una maggiore deportanza, ma il profilo sinuoso delle fiancate impedisce spesso il corretto scorrimento delle minigonne con problemi di stabilità in curva. Inoltre la scocca è molto stretta e tende a flettere peggiorando le prestazioni della macchina inglese.

Patrick Head, il capo tecnico della Williams, è un uomo che ha sempre messo davanti i concetti di logica e razionalità alla progettazione delle sue vetture e realizza la FW07, una vettura semplice, leggera, razionale e veloce che sfrutta appieno l’effetto suolo e vince il primo mondiale per la casa di patron Franck con Alan Jones nel 1980.

L’anno successivo tocca alla Brabham BT49, di Nelson Piquet, un’altra ad effetto suolo dopo che la casa inglese è ritornata all’utilizzo del DFV Cosworth abbandonando il 12 cilindri boxer dell’Alfa Romeo. Gordon Murray si dimostra ancora una volta il genio nell’aggirare i regolamenti. Nel 1981 la Federazione Internazionale impone una altezza minima da terra ed il divieto di minigonne mobili. Il progettista sudafricano applica delle sospensioni idropneumatiche alla monoposto, sul principio della Citroen DS. Ai box e quindi in verifica, la vettura rispetta i regolamenti imposti, ma in velocità il pilota agisce sui martinetti abbassando la vettura e ripristinando l’effetto suolo, anche se le minigonne fisse tendono ad usurarsi perdendo con il tempo il completo effetto. Per avere una altezza costante e sfruttare le minigonne le monoposto avevano sospensioni praticamente inchiodate in velocità con effetti deleteri sulla schiena e sul collo dei piloti.

Intanto il progresso della tecnica seguiva nuove strade: i motori turbo iniziavano a dominare la scena, l’incremento di potenza dato dalla sovralimentazione delle vetture dotate del nuovo dispositivo, come Renault e Ferrari, compensava ampiamente gli sforzi, per ottenere vetture sempre più leggere ed aerodinamicamente efficienti, fatti dai progettisti che utilizzano il DFV Cosworth. Intanto debutta la McLaren M4 con la prima scocca in fibra di carbonio progettata da John Barnard che vince il Gran Premio di Gran Bretagna il 18 luglio 1981 con John Watson. Il nuovo materiale consentirà una rivoluzione nella struttura dei telai rendendo molto più rigide e profilate le scocche.

Anche Colin Chapman pensò al nuovo materiale, presentò alla stampa la nuova Lotus 88, una vettura sempre alla ricerca del massimo effetto suolo con un doppio telaio. La soluzione era dettata dalla necessità di avere sospensioni rigidissime per sfruttare l’effetto suolo ed al contempo morbide per avere guidabilità il pilota stava in una cellula sospesa al centro della struttura periferica che si abbassava con l’aumentare della spinta aerodinamica per effetto della deportanza. La cellula era dotata di sospensioni che si indurivano solo ad alta velocità per effetto dello schiacciamento al suolo, mentre erano morbide nelle curve strette quando la monoposto tornava ad avere i sei centimetri regolamentari imposti. Elio De Angelis guidò la 88 solo durante un turno di prove nella prima della stagione 1981 a Long Beach. L’aria si infilava tra le due scocche rendendo inguidabile e vano l’effetto previsto da Chapman, infine la FIA decretò che tutto il sistema era paragonato ad elementi aerodinamici mobili e la vettura venne bandita dalle gare.

Il 1982 può essere considerato l’ultimo anno delle vetture ad effetto suolo. Il motore turbo domina la tecnologia anche se il titolo mondiale viene vinto da Keke Rosberg con la Williams FW08 Cosworth. Le vetture con il turbo hanno le fiancate piene di radiatori ed accessori per il funzionamento della sovralimentazione ed hanno minigonne fisse elastiche. I serbatoi sono generalmente piazzati davanti al motore e l’abitacolo del pilota è molto avanzato e pericoloso. Le gambe dei piloti sono spasso davanti l’asse delle ruote anteriori, senza nessuna debita protezione in caso di urto. Le prestazioni sempre maggiori date dall’innalzamento delle potenze dei propulsori sovralimentati conducono ad una serie di incidenti sfociati in drammi. Gilles Villeneuve perde la vita a Zolder, Riccardo Paletti in Canada, Didier Pironi ha un serio incidente ad Hockenheim che porterà alla fine della sua carriera.

In ottobre la FIA emana le nuove norme tecniche per il 1983: proibite le minigonne, proibite le sospensioni ad altezza variabile, peso minimo di 540 kg e obbligo di fondo piatto per i telai. Era in pratica la fine delle vetture ad effetto suolo.

Il 16 ottobre del 1982, a soli 54 anni, un attacco cardiaco poneva fine all’esistenza di Colin Chapman. L’ideatore dell’effetto suolo spariva, come a significare che era definitivamente finita un’epoca dove l’aerodinamica aveva cambiato profondamente tutta la tecnica delle vetture da competizione.