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giovedì 1 settembre 2022

Le sfide di Bruce McLaren, l'ingegnere-pilota


di Massimo Campi
foto Raul Zacchè - Actualfoto

Bruce Leslie McLaren nasce il 30 agosto del 1937, ed il padre Les ben presto capisce che qualcosa nel suo amato figlio non va: ha la malattia di Perthes nella forma più grave. Il piccolo Bruce passa la sua infanzia rimanendo tre anni in terapia muovendosi con l’ausilio delle stampelle. Alla fine si deve rassegnare ad avere una gamba più corta dell’altra per sempre, ed a non potere giocare al suo sport preferito, il rugby.
Quegli anni di sofferenza, di disagio fisico forgiano il carattere del tenace Bruce. Scatta la voglia di farcela, di arrivare ugualmente, non nel gruppo, non con gli altri, ma davanti, per primo. Camminava con le stampelle e i muscoli delle braccia divennero tesi, arrotondati, potenti, quando le gettò nella spazzatura, si fece fare delle speciali scarpe ortopediche che pareggiavano la lunghezza della gamba malata con quella sana per nascondere il suo camminare da zoppo.
Oggi, parlare di McLaren significa una squadra, forte, quella che ha conquistato i mondiali con piloti del calibro di Fittipaldi, Hunt, Prost, Senna, Hakkinen, ma all’inizio di questa avventura c’è la storia di un uomo, venuto da lontano, dai confini del mondo della Nuova Zelanda, che ha dovuto lottare fin da piccolo contro le avversità della vita, ed è morto, il 2 giugno del 1970 mentre stava collaudando una sua creatura sul tracciato di Goodwood.

L’adolescenza la passa nella stazione di servizio, a Remuera nei sobborghi di Auckland, del padre che ben presto si accorse della cocciutaggine e della voglia di emergere del piccolo Bruce. Les aveva gareggiato in moto, amava le corse, la meccanica, e tra le macchine aveva in officina una Austin 7 che giudicava troppo potente e pensava di venderla, ma Bruce, che aveva solo 14 anni e già guidava la macchina si oppose, a lui la “7” piaceva, era la sua vettura ideale, tanto che una domenica mattina, a soli 15 anni, appena ottenuta la patente, la prese “per fare un giro” ed andò ad iscriversi ad una gara in salita. Quando rientrò nel pomeriggio aveva sul sedile del passeggero una coppa: prima gara e prima vittoria, tanto per fare capire chi era Bruce McLaren!

Dopo la prima vittoria ne seguono altre, il binomio McLaren-Austin è spesso primo nelle gare in salita della Nuova Zelanda, ed intanto Bruce studia, ovviamente meccanica, ed impara a preparare la sua macchina per migliorare le prestazioni. Avena 19 anni e non aveva ormai dubbi sul suo futuro: diventare pilota professionista. Nel 1956 McLaren compì il salto di qualità: acquistò una Cooper-Climax di F.2 usata, appartenuta a Jack Brabham e trascorse tutto l’inverno a inviare lettere a colui che sarebbe diventato 3 volte iridato per avere delucidazioni sulla preparazione della sua ex monoposto. L’orso australiano rimase stupito da quella curiosità, si segnò il nome del quel ragazzino e nel ’57 seguì le evoluzioni di Bruce in pista, capendo che dietro la curiosità esisteva il talento.

Quando nell’inverno Brabham giunse in Nuova Zelanda per il Gp, inserito nella Coppa Tasmania, portò con sé una Cooper in più da destinare a Bruce. E McLaren non lo deluse: si aggiudicò il concorso “A Driver for Europe”, la borsa di studio per il miglior talento neozelandese: per Bruce il 1958 sarebbe stato scandito da una Cooper F.2 ufficiale e dalla residenza in Inghilterra sotto l’ala protettrice di Jack Brabham. Il giovane Bruce impara in fretta, è veloce, ha talento ed arriva il grande giorno, il 3 agosto del 1958. quando la sua piccola F.2 viene schierata al via del GP di Germania, dietro le più potenti monoposto di F.1. Nordschleife, tracciato tosto, per piloti veri, su 26 qualificati Bruce McLaren si classifica 15° e 1° tra le monoposto della categoria cadetta. In gara dietro a Brooks, Salvadori, Trintignant e von Trips, al 5° posto, c’è lui, vincitore di categoria. A fine anno arriva 12° assoluto e 2° tra le F.2 al Gp del Marocco, quello dell’affermazione nel mondiale costruttori della Vanwall e della morte di Lewis-Evans.

Il volante in F.1, con una Cooper è suo per la stagione 1959. A Montecarlo arriva 5°. Ripete il risultato in Francia. Ad Aintree diventa il più giovane pilota nella storia a salire sul podio, conquistando il 3° posto. E dopo i ritiri in Germania, Portogallo e in Italia, Bruce entra nelle statistiche di ogni tempo: il 12 dicembre a Sebring vince il Gp degli Usa. Ha appena compiuto 22 anni, è il più giovane ad avere colto il successo in F.1. Il suo record resisterà per molti anni, mentre Jack Brabham vince il suo primo titolo mondiale. In pochi, tra i giovani del mondiale, posseggono il talento scientifico di Bruce, la sua visione tattica, la sua precisione nel mettere a punto la vettura. McLaren vince il primo Gp del 1960 a Buenos Aires. Poi fa da scudiero a Brabham ed è 2° nel mondiale, andando a podio in tutte le corse alle quali partecipa, tranne che a Zandvoort. Brabham decide di diventare costruttore, alla Cooper c’è McLaren talento nato che continua a fare risultati importanti anche in periodi di vacche magre. Nel 1962 McLaren vince a Montecarlo, tiene su una baracca che sta cedendo sulla spinta della maggiore competitività di Brm e di Lotus. Bruce però continua ad occuparsi di meccanica, il suo faro rimane sempre “balck Jack” Brabham e Cooper non può fare altro che assecondare il desiderio del suo pilota, quando a fine 1963, gli chiede il permesso di fondare una propria scuderia, la Bruce McLaren Motor Racing Limited per schierare due Cooper nella Coppa Tasmania con motore Climax 2700.
I piloti sono McLaren stesso e un giovane americano di nome Timmy Mayer. Come team manager viene convinto il fratello di Timmy, Edward Mayer detto Teddy. Il capo-meccanico è portato in dote dai Mayer: si chiama Tyler Alexander. Il team domina la serie ma Timmy Mayer muore durante le prove dell’ultima corsa.
Suo fratello Ted decide di restare a fianco di Bruce, così come Tyler Alexander. Nasce la McLaren. Pur continuando con la Cooper in F.1, Bruce si convince sempre più a diventare costruttore.
Da Roger Penske acquista la Zerex Special, un telaio ex Cooper F.1 modificato per ospitare due posti. La smonta e la ricostruisce secondo i propri concetti, la porta in corsa a Mosport in Canada vincendo, poi la presenta in Europa. Nel frattempo sta realizzando la prima vera McLaren della storia: la M1 che nasce nel Middlessex a Feltham. È una biposto a motore Oldsmobile. Il 26 settembre 1964 debutta a Mosport con una vittoria. Da questo momento Bruce McLaren si divide: è pilota professionista tra i più capaci e team manager. Corre ovunque nel 1965: per la Cooper in F.1, per la Ford con la GT40, nelle sport e con la sua vettura auto costruita. È l’ultimo anno con la Cooper, la squadra che lo ha tenuto a battesimo nelle corse europee e che lo ha fatto grande nel mondiale. Nel frattempo Bruce ha incontrato un giovane ingegnere molto promettente: si chiama Robin Herd, ha collaborato spesso con l’industria aeronautica, è esperto di materiali e aerodinamica ed è questo incontro che determina la decisione finale: lasciare la Cooper e imitare in tutto e per tutto Jack Brabham, diventando costruttore al 100%. C’è solo un problema: trovare un motore competitivo per la formula 3 litri che è andata a sostituire la gloriosa 1,5.
Bruce è pilota ufficiale della Ford, Teddy Mayer il suo abile stratega. La Ford concede il permesso di
sviluppare un propulsore derivato da un Ford 4700 di Formula Indy, ridotto a 3000cc che viene montato, nel 1965 sulla prima McLaren di F.1 la M2B. Ha un telaio disegnato da Herd e realizzato in Mallite, un laminato composito. L’idea è rivoluzionaria ma il motore è poco competitivo, ha solo 300 cv e spesso si rompe. Dopo appena un Gp, la McLaren accetta l’offerta della Serenissima del Conte Volpi che mette a disposizione del team un Ford V8 modificato dall’ingegner Massimino, ex Ferrari, e sviluppato dall’ex meccanico di Stirling Moss, Alf Francis. I cavalli sono ancora meno, appena 260, ma è ben più robusto, in teoria, dell’altro che nel frattempo giace al banco in fase di modifica. La collaborazione si rivela disastrosa e quando il Ford V8 originale torna in pista, la McLaren soffre sempre rispetto alla concorrenza. Bruce si consola vincendo la 24 Ore di Le Mans in coppia con Chris Amon sulla Ford GT40. Nel 1966 la McLaren monta un Brm: Bruce arriva 4° a Monaco, ma a tre giri e poi fa collezione di ritiri. Le sue vetture, in compenso, diventando le regine della Can Am con Bruce che vince il titolo del 1967. A fine anno Robin Herd abbandona il team per andare a lavorare al progetto della Cosworth 4 ruote motrici di F.1 dopo avere ultimato la M7A che monta il Cosworth DFV. Al posto del geniale Herd viene promosso il suo assistente, Gordon Coppuck. Denny Hulme dopo avere vinto il titolo mondiale abbandona la Brabham per passare nel team di Bruce. La coppia spopola, i due dominano la Can Am e soprattutto diventano presenze importanti in F.1.

La M7A è semplice, raffinata, adattabile, il Cosworth è il degno compagno di un telaio sul quale Herd ha corretto gli errori dei primi modelli, raggiungendo la quasi perfezione costruttiva. Dopo due ritiri in Spagna e a Monaco, Bruce realizza il suo sogno: il 9 giugno vince il Gp del Belgio. Tutto in poco più di 12 anni. La McLaren lotta anche per il titolo con Hulme, che vince a Monza e in Canada. La voglia di McLaren per la tecnica lo porta anche al successo in F.Indy.
Bruce McLaren è super impegnato, pilota, costruttore, team manager, capisce che ormai il dividersi nella doppia veste può procurare più danni che benefici. Il 1969 è un anno di transizione. Intanto il fido Teddy Mayer lo indirizza a occuparsi più degli aspetti gestionali, cerca di convincerlo ad ipotizzare il ritiro dalle corse, ma McLaren non molla, almeno nel 1970 decide di proseguire in F.1. Deve compiere 33 anni, gli piace guidare ma soprattutto ama collaudare e sviluppare le sue vetture. Inizia la stagione con un ritiro a Kyalami, arriva 2° al Jarama, poi abbandona aa Montecarlo con una sospensione rotta. È il suo ultimo Gp. Il 2 giugno si reca a Goodwood per collaudare l’amatissima M8D Can-Am che Hulme non può sviluppare perché a Indianapolis ha subito un bruttissimo incidente ed è momentaneamente fuori gioco. Si allaccia le cinture, mette in moto, prende la via della pista, che ormai da anni è fuori da qualsiasi giro di corse importanti e non rappresenta il massimo per la sicurezza. All’uscita di una curva, perde il retrotreno, la vettura caracolla, finisce contro una postazione in disuso dei commissari. Bruce muore sul colpo con quel volta da eterno ragazzo, mentre stava consolidando quel suo sogno, voluto con forza e la cocciutaggine di chi sa che deve lottare duro per ottenere dei risultati nella vita.

mercoledì 31 agosto 2022

La Ferrari 330 P4 e il Mondiale del 1967



- di Massimo Campi
- foto Raul Zacchè

La Ferrari con le ruote coperte ha vinto ben 14 titoli mondiali e tra tutte le vetture del cavallino rampante che hanno conquistato le vittorie nella categoria, una più di tutte ha lasciato il segno: la Ferrari P4 del 1967.

Nella storia della fabbrica di Maranello vi sono vetture che non hanno nel loro palmares tante vittorie, ma solo quelle più famose e tra queste c’è sicuramente la Ferrari 330 P4, che, nel 1967, ha segnato la sfida conclusiva con la Ford, l’atto finale di una guerra iniziata nel 1964 con la rinuncia di Enzo Ferrari a vendere la sua fabbrica alla Casa americana.
Ford contro Ferrari, il colosso di Detroit contro il piccolo costruttore di Maranello, una sfida che ha fatto scrivere intere pagine di giornale e che ha tenuto viva l’attenzione degli appassionati nella metà degli anni ’60. L’atto finale di questa guerra, celebrata anche sul grande schermo, è la stagione 1967, con la Ford che vince a Le Mans ma la Ferrari riconquista il titolo mondiale. Un sfida che, rivista dopo tanti anni, è finita con un pareggio dove ognuno dei due sfidanti ha ottenuto le proprie soddisfazioni. Ripercorrendo quella fantastica stagione c’è sicuramente una gara che rappresenta la vera vittoria delle rosse: la 24 Ore di Daytona, con le Ferrari che vincono in parata in terra americana, praticamente in casa del nemico, una immagine che ha fatto il giro del mondo. La grande protagonista di quella stagione è la nuova Ferrari 330 P4, il più bel prototipo uscito dalle officine di Maranello.

Uno smacco per gli americani, Henry Ford dichiara guerra al piccolo costruttore italiano che conquistava le prime pagine dei quotidiani con le sue sonanti vittorie nelle gare domenicali. Sotto il marchio americano viene realizzata la Ford GT, in seguito ribattezzata GT40, proprio per conquistare quegli spazi e rivaleggiare con le rosse di Maranello. L’obbiettivo è quello di vincere la 24 Ore di Le Mans, la gara di durata per eccellenza ed il Campionato Mondiale Sport Prototipi, la serie più seguita nel panorama sportivo dell’epoca. La Ford riesce a conquistare la maratona della Sarthe nel 1965 e la rivince nei due successivi anni, sempre sconfiggendo le rosse di Maranello, ma il Campionato Mondiale lo conquista solamente nel 1966. Le grandi gare di durata, oltre alla Ford, richiamano anche la General Motors, che finanzia la costruzione della Chaparral, altra sfidante dei piccoli costruttori europei. L’arrivo dei colossi americani fa cambiare velocemente lo scenario delle competizioni: aerodinamica, motori potentissimi con cilindrate di oltre sette litri, accessori, pneumatici, e soprattutto ingenti stanziamenti finanziari, danno una improvvisa accelerazione a tutto l’ambiente sportivo.

La piccola Ferrari rimane il baluardo europeo che si difende contro i dollari e la tecnologia del nuovo mondo ed ogni corsa è una sfida che va oltre il puro aspetto sportivo. La Ford con le sue GT MkII e MkIV “con i cilindri grossi come fiaschi”, come affermava spesso Enzo Ferrari, vincono a Daytona, Sebring e Le Mans, mentre le altre vetture conquistano spesso le gare europee spaccando il mondo delle corse in due fazioni: quella pro-Ford e quella pro-Ferrari.

L’atto finale di questa sfida arriva proprio nel 1967, quando la scuderia di Maranello scende in pista con la nuova 330/P4, derivata dalla 330/P3 del 1966 che aveva dovuto soccombere allo strapotere Ford. Il grande giorno arriva alla 24 Ore di Daytona, con le rosse che sfilano in parata sotto la bandiera a scacchi, sancendo la loro superiorità nei confronti del colosso americano, una vittoria che rimarrà nella storia, sicuramente tra le più significative nel lungo palmares di Maranello. L’impresa non riesce a ripetersi a Le Mans, ma a fine anno sarà ancora la P4, con i suoi risultati, a riportare l’alloro mondiale in terra emiliana.

Il Drake, che ama le sfide, ha reagito con la sua solita grinta alle sconfitte degli ultimi anni spronando i propri uomini a realizzare la nuova vettura: “dobbiamo assolutamente batterli quelli là”, usava dire ai suoi collaboratori. Li mette sotto pressione ed alla fine ne esce la più bella vettura prototipo realizzata a Maranello. A fine anno ‘67 la casa di Maranello si può fregiare nuovamente del titolo mondiale sopravanzando le potenti vetture americane del colosso di Detroit con i motori di 7 litri. La 330 P4 è prodotta in soli quattro esemplari con i numeri di telaio 0856, 0858, 0860, e la 0846 che è una 330 P3 aggiornata con le specifiche della 330 P4. 
Presentata alla stampa nel cortile di Maranello, il 26 gennaio 1967, pochi giorni dopo ottiene la sua vittoria più clamorosa alla 24 ore di Daytona. Nel catino della Florida è la P4 di Chris Amon e Lorenzo Bandini a tagliare per prima il traguardo, ed il D.S. della Ferrari, Franco Lini, si inventa l'arrivo in parata con tre Ferrari affiancate sulla linea del traguardo: la P4 vincitrice assieme alla vettura gemella di Scarfiotti-Parkes ed alla 412 di Rodriguez-Guichet. Le immagini di quell’arrivo sono entrate nella leggenda delle corse automobilistiche.

La carrozzeria della P 4 realizzata da Piero Dongo, un artigiano modenese, è prevista sia in versione aperta che chiusa, a seconda delle piste, la sua linea sarà definita “meravigliosamente bella” un esempio di design tra i più puri della storia. Il motore posteriore centrale è il 12 V di 3.967 cc con una nuova testata a tre valvole per cilindro, disegnata da Franco Rocchi e già sperimentata con successo sulle monoposto di F.1. Al banco la potenza registrata è di 450 cv, cento in meno delle Ford avversarie, che però montano un motore di 7 litri. In compenso la Ferrari pesa 792 kg contro i 998 kg delle vetture americane. Il cambio, è ritornato ad essere di produzione Ferrari dopo la soluzione ZF usata nella 330 P3. La P4 monta i nuovi pneumatici della Firestone al posto dei Dunlop usati nella stagione ‘66.

La 330 P4,oltre la 24 ore di Daytona, conquista anche la 1000 km di Monza, sempre con Amon-Bandini. A Spa arriva solamente quinta, a Le Mans seconda dopo una rimonta di Parkes sulla GT 40 di Foyt-Gurney. La gara decisiva dell'anno, per la P4, è la 1000 km di Brands Hatch che si corre sul tracciato inglese il 30 luglio del 1967. Sul gradino più alto del podio sale la Chaparral di Hill-Spence, ma il secondo posto della P4 di Amon-Stewart, davanti alla Porsche di Mc Laren-Siffert, basta alla Casa di Maranello per aggiudicarsi il Trofeo Internazionale Prototipi del 1967.

La Ferrari 330P4 corre nel campionato mondiale solo nella stagione ‘67. Dal 1968 entra in vigore il nuovo regolamento che impone vetture sport di 5 litri prodotte in almeno 50 esemplari. Enzo Ferrari, infuriato per il nuovo regolamento imposto dalla Federazione Internazionale, e non disponendo di una nuova vettura, deicide di non partecipare al campionato del mondo 1968. La 330 P4 va così in pensione, ma lascia un gran ricordo nei cuori ferraristi. Delle quattro vetture realizzate dalla scuderia di Maranello, due vetture vengono successivamente modificate nelle 350P con il V12 portato a 4,2 litri per correre nella serie Can Am americana con Chris Amon.

sabato 28 maggio 2022

McLaren F1 GTR, la granturismo progettata da Gordon Murray che vince le corse



> di Massimo Campi – immagini di Raul Zacchè/Actualfoto

Il 28 maggio 1992 viene presentata a Montecarlo la McLaren F1, la Gt che rivoluziona il mondo delle supercar, ed anche la prima vettura stradale della fabbrica inglese. Tutto inizia a fine anni ’80, quando la McLaren di Ron Dennis decide di entrare nel mondo delle granturismo ad alte prestazioni, come Ferrari e Porsche, ma a Woking fanno le cose in grande, senza nessun risparmio. Gordon Murray, geniale ed eclettico progettista di monoposto da competizione, è il direttore tecnico della factory inglese e crea, nel 1990, un team di sette progettisti per realizzare una granturismo dalle prestazioni estreme. Nasce la McLaren F1, lo sviluppo del progetto, e dei primi esemplari, dura tre anni, Murray riesce a realizzare una vettura che diventerà una delle pietre miliari nella storia della tecnologia automobilistica e la più veloce auto stradale in commercio con motore aspirato.

Nonostante le soluzioni estreme, la factory inglese riesce a creare una granturismo abbastanza confortevole per tre persone, con il posto guida posto al centro dell’abitacolo ed i due posti per i passeggeri ai fianchi. Grazie all'utilizzo di tecnologie innovative, la vettura ha una massa di poco superiore ai 1.100 kg in ordine di marcia con un rapporto peso/potenza di appena 1,75 kg/cv, il propulsore è realizzato appositamente dalla BMW ed inizialmente, nella configurazione stradale, ha una potenza massima di 627 cv. La casa tedesca realizza il V12 di 60°, che ha una cilindrata iniziale di 6.064 cc realizzato con leghe metalliche ad alta tecnologia per ridurre i pesi e posizionato alle spalle dell’abitacolo. Nelle varie versioni la potenza del V12 S70/2 viene aumentata dagli iniziali 627 cv, a 7.500 giri fino a 680 CV, a 7.800 giri.

La trasmissione della McLaren F1 si avvale di un cambio manuale a sei marce montato longitudinalmente ed una frizione a tre dischi in carbonio che deve essere sostituita ogni 5.000 km. Tra i record della F1 c’è anche quello della prima vettura stradale costruita con una scocca autoportante in fibra di carbonio con il guidatore, posizionato al centro, nel posto guida in posizione avanzata rispetto ai due passeggeri laterali. Molto curata l’aerodinamica, Murray ha studiato un sistema di ventole che controlla lo spessore dello strato limite nel sottoscocca per ottimizzare l'effetto suolo, mentre un freno aerodinamico viene azionato automaticamente per rendere il retrotreno della vettura stabile durante le frenate ad alta velocità.

Dal 1993 al 1998 la McLaren F1 viene prodotta in 106 esemplari, in varie versioni, stradali e da competizione. Inizialmente non è prevista una versione per le competizioni, ma alla McLaren arrivano alcune richieste dai clienti sportivi. Le caratteristiche della F1 sono ottimali per il nuovo campionato a ruote coperte nato dalle ceneri del Mondiale Sport, il BPR GT Series, organizzato da Jurgen Barth, Patrick Peter e Stéphane Ratel che prevede gare di quattro ore di durata con vetture granturismo derivate dalla serie. Tra le vetture inizialmente al via nel 1994 ci sono Porsche 911 Turbo, Venturi LM600, Lotus Esprit, Callaway e Ferrari F40. Il campionato ha subito successo, alcune Case iniziano a nutrire molto interesse nella serie ed i team sono alla ricerca di vetture più performanti da schierare nelle gare.

Il Team di Ray Bellm e Thomas Bscher intuisce le potenzialità della McLaren motorizzata BMW e si rivolgono a Gordon Murray per realizzare una F1 da competizione e la McLaren da il via allo sviluppo ed al supporto tecnico alle squadre.
La McLaren F1 GTR da competizione viene realizzata in soli quattro mesi, la GT inglese debutta ad inizio stagione 1995 nella serie BPR e subito diventa la vettura di riferimento. Nel primo anno sono nove gli esemplari realizzati che vanno al team britannico West Competiton GTC Racing, alla David Price Racing, BBA Competition, Mach One Racing e Giroix Racing Team, mentre il Sultano del Brunei ne acquista uno per la sua collezione privata.

Le vetture GT1 vengono ammesse anche alla 24 Ore di Le Mans del 1995, ed è proprio il Team Kokusai Kaihatsu McLaren che sale sul gradino più alto del podio al debutto con la vettura pilotata da Yannick Dalmas/Masanori Sekiya/J.J. Lehto. Il successo porta molta pubblicità alla McLaren ed alla BMW che decide di creare un proprio Team, sotto la direzione di BMW Motorsport per correre con la F1 GTR che viene ulteriormente sviluppata con una estensione della carrozzeria sul muso e nel retrotreno ed un nuovo splitter maggiorato all’anteriore. Nel 1997 la BPR Global Series diventa il Campionato FIA GT, dove vengono ammesse le vetture GT1 con ulteriori evoluzioni da competizione. Nascono vetture speciali e la McLaren, con l’appoggio della BMW Motorsport, è costretta ad un ulteriore step di sviluppo per contrastare le prestazioni di vetture concorrenti, progettate come vetture da competizione e non come GT stradali come la F1.

Lo staff di Woking si rimette al lavoro, la F1 GTR versione FIA GT 1997 ha ampie modifiche alla carrozzeria per ottenere il maggior carico aerodinamico possibile, come al propulsore che nella nuova versione S70/3 passa a 5.990 cc con 600 cv di potenza come imposto dai regolamenti. Rimane sempre una delle vetture di riferimento della serie GT fino alla fine degli anni ’90, nonostante la concorrenza di Mercedes e Porsche con i loro prototipi GT1 mascherati da Granturismo.

La nuova versione long tail regge il confronto con la concorrenza, Mercedes e Porsche sono molto veloci ma la McLaren si distingue per l’affidabilità e per un buon bilanciamento generale. Nel 1998 una McLaren del Team Davidoff è portata in gara da Thomas Bscher con Emanuele Pirro e Dindo Capello per saggiare una futura partecipazione del team Audi a Le Mans.

Tra le vittorie delle F1 GTR ci sono quelle della serie GT Giapponese nel 1996 con il Team Goh. Nel 1997 il team Davidoff ha conquistato anche la 6 Ore di Vallelunga e nel 1998 vince anche la 1000 Km di Monza con Thomas Bsher e Geoff Lees.

La McLaren F1 non è stata comunque un successo commerciale, il prezzo molto elevato ha ristretto l’acquisto a pochi ricchi. Delle 106 vetture prodotte sono stati costruiti 28 telai GTR F1 che sono diventati pezzi rari da collezione con alte quotazioni nelle aste.










giovedì 19 maggio 2022

Eifelland E21, la Formula 1 di Lutz Colani


di Massimo Campi – foto Raul Zacchè/Actualfoto

Tra le monoposto più curiose degli anni ’70, un posto di diritto spetta alla Eifelland E21, la formula uno disegnata da Luigi Colani, un desiner tedesco che ha modificato un telaio March 721 ridisegnandone le forme. L’avventura della Eifelland nasce per merito del suo fondatore, Gunther Hennerici, noto produttore tedesco di caravan proprio con quel nome. Hennerici è un grande appassionato di corse e con il suo marchio sponsorizza la carriera di Rolf Stommelen, giovane promessa tedesca. Stommelen è sostenuto dalla Eifelland partendo dalle categorie propedeutiche, F.3 e F.2, fino ad arrivare in F.1 con la Brabham dove conquista un podio in Austria. Hennerici, visti i risultati promettenti, decide di mettere mano direttamente al portafoglio e di realizzare un proprio Team ed una vettura che portano il nome della sua ditta per il forte pilota tedesco. Acquista una March 721 con motore Ford Cosworth DFV, cambio Hewland, gomme Goodyear, e decide di farla modificare da Luigi Colani.

Colani, classe 1928, al secolo Lutz, è un designer nato in Germania e naturalizzato svizzero, che diventerà famoso per il suo estro e la sua versatilità, ma anche per la sua eccentricità. Appena diciottenne si iscrive all’Accademia delle Belle Arti di Berlino, frequentando i corsi di scultura e pittura, e due anni dopo Colani è alla Sorbona di Parigi, dove studia aerodinamica. Nel 1953 Colani è in California, a lavorare alla Douglas Aircraft Company, come responsabile di una ricerca su nuovi materiali aeronautici. Finita quell’esperienza Colani torna in Francia, si dedica al design automobilistico e nel 1954, a Ginevra, riceve il premio Golden Rose per il suo lavoro nel campo dell’aerodinamica automobilistica. Il design di Colani è decisamente estroso e creativo, composto da rotondità spesso esasperate, che vogliono evocare il dinamismo e la vitalità dell’oggetto. Le linee tondeggianti sono il suo stile principale che lui definisce “bio-design”.

La sua verve estrosa lo fa anche cambiare nome e nel 1957 decide che, da quel momento in poi, si sarebbe chiamato Luigi Colani e non più Lutz. Realizza una vettura sulla base dell’Alfa Romeo Giulietta, denominata poi Colani Alfa Romeo; sarà la prima vettura turismo a terminare un giro al circuito del Nürburgring in un tempo inferiore ai 10 minuti. Oltre al design automobilistico, Colani si dedica anche all’oggettistica, ai mobili per l’arredamento, e nel 1968 fonda un suo studio di design in Westfalia lavorando sulle potenzialità dei materiali plastici per la costruzione di automobili, arredamento ed altre apparecchiature, come ad esempio le macchine fotografiche. Tre anni dopo, per merito di Hennerici, per Colani si aprono le porte della Formula uno. La Eiffeland E21, che è in pratica la March 721 modificata, ha una forma molto avveniristica, con una grande presa d’aria posta davanti all’abitacolo, in cui sopra era posizionato centralmente un unico specchietto retrovisore, fissato ad un vistoso supporto centrale che si alzava oltre la linea del cockpit. Il design di Colani si basa su una sua teoria: “La terra è rotonda, la sua orbita ellittica, quindi perché questa ossessione creativa e conservatrice con linee rette?”

Quando la Eifelland venne presentata alla stampa tedesca Colani affermò che gli altri design non avevano nulla a che a fare con l’aerodinamica rispetto a quello pensato per la sua nuova creatura e per via delle sue forme ovoidali e inconsuete la E21 venne subito ribattezzata “The Whale”: la balena. Nei primi test la vettura dimostrò subito i suoi problemi dati dal carico dell’enorme alettone che ricopriva tutta la parte posteriore, con una superficie di 2,5 metri quadri ed alla difficoltà del raffreddamento data dalle particolari forme aerodinamiche della carrozzeria. Inoltre la March 721 aveva un telaio no proprio all’altezza della concorrenza, tanto che anche i piloti ufficiali della squadra di Bichester, Lauda e Peterson, lamentavano problemi. Il debutto avviene all’inizio del 1972 alla Race of Champions di Brands Hatch, gara fuori campionato dedicata alle monoposto di Formula Uno e F.5000. La E21 si presenta al via con diverse modifiche aerodinamiche e superfici alari rimpicciolite per migliorare il raffreddamento. Stommelen è dodicesimo in prova su 19 vetture al via, finì undicesimo a un giro dal vincitore Alan Rollinson su Lola

A Kyalami avviene il debutto in un Gran Premio iridato, la Eifelland ha una livrea completamente bianca ed il classico muso a pesce martello della March 711 abbandonando l’avveniristico muso progettato da Colani. Stommelen ottiene il 25° tempo in griglia ad oltre tre secondi di distacco dalla Tyrrell di Jackie Stewart in pole position, ma è anche distaccato di oltre un secondo e mezzo dalla March ufficiale di Lauda. Il tedesco in gara riesce a giungere al traguardo, in tredicesima posizione a due giri di distacco dal vincitore. In Spagna a Jarama la E21 si presenta con l’ala posteriore a profilo singolo, ed un nuovo muso con due baffi laterali. La livrea è bianca e blu e con questa configurazione continua per il resto della stagione. Grazie agli aggiornamenti migliorano anche le prestazioni, ma in gara Stommelen si deve ritirare per un incidente quando è sedicesimo. 

A Monaco la Eifelland mostra tutti i suoi limiti, Stommelen è 25° in griglia rimediando ben otto secondi di distacco dalla Lotus 72 di Fittipaldi. Al via diluvia, sarà una edizione particolare vinta da Beltoise con la BRM e l’asso tedesco riesce ad approfittare della situazione riuscendo a portare la Eiffeland al 10° posto, ma staccato di ben tre giri dal vincitore. Il resto delle gare non vedono particolari progressi, Stommelen è 11° in Belgio a Nivelles, a Clermont Ferrand una foratura fa perdere parecchio tempo, a Brands Hatch è penultimo in prova, ma il tedesco riesce a risalire fino al decimo posto in gara, ma con un ritardo di ben cinque giri dalla Lotus di Fittipaldi che arriva prima. Stommelen sfrutta tutta la sua esperienza ed il coraggio nel toboga del Nurburgring, è 15° in prova, ma in gara si deve fermare per problemi elettrici.

I risultati non arrivano, Hennerici inizia ad avere anche problemi finanziari: debuttare con un suo Team in Formula Uno è stato un vero azzardo e ben presto deve cedere la sua azienda di caravan e di conseguenza il Team, per ripianare i debiti. La Eifelland E21 si ripresenta in agosto a Zeltweg in Austria, sotto le nuove insegne del “Team Stommelen”. Il tedesco è 17° in prova, in gara si deve fermare per problemi al motore. Il nuovo proprietario, succeduto ad Hennerici, non ha nessuna intenzione di rimetterci altri soldi e decide di porre fine all’avventura. Dopo solo otto gare la Eifelland E21, la fantasiosa creatura uscita dalla penna di Luigi Colani finisce nell’oblio. Tutto il materiale viene svenduto, sia le March 723 di F.3 che la E21. Alcune monoposto riapparvero in pista nel biennio 1974/75 sotto le insegne della Reinhalds, mentre la sede operativa del team fu ceduta alla Hexagon Racing, che successivamente prese parte a ad alcuni eventi non titolati. Luigi Colani ha continuato ad essere un vulcanico desiner ed una persona estremamente estrosa. Fino alla sua scomparsa, avvenuta il 16 settembre 2019, ha abitato in un castello con il fossato in Westfalia, portando sempre maglioni da cricket e cravatte variopinte, usando gli zoccoli al posto delle scarpe ed amando oltre misura i sigari.

Foto Raul Zacchè/Actualfoto - riproduzione riservata






 



 

domenica 15 maggio 2022

Elio De Angelis, un fuoriclasse con poca fortuna



- di Massimo Campi
- Immagini © Raul Zacchè/Actualfoto

Per Elio De Angelis la stagione 1986 doveva essere l’occasione della riscossa. Aveva debuttato nel 1979 a soli 21 anni in F. 1 con un titolo europeo di Kart nel 1976 ed il titolo italiano di F. 3 nella stagione successiva. Un anno alla Shadow, da pilota pagante, poi era stato Colin Chapman a volerlo alla Lotus, il marchio che aveva rivoluzionato la F. 1 con le wing car. I due si erano capiti, anche se Colin aveva giocato d’azzardo con quella Lotus 88, squalificata prima di prendere parte ad una gara. 

Nel 1982 arriva la nuova Lotus 91, e la prima vittoria per Elio, in Austria, in volata per soli cinque centesimi su Keke Rosberg. Chapman aveva visto giusto ancora una volta, il romano aveva le doti del campione, oltre che avere classe fuori dalla monoposto. Ma Colin scompare alla fine del 1982 e la Lotus precipita nel caos, fino a quando arriva Gerard Ducarouge e le quotazioni di Elio risalgono anche se, con Peter Warr che ha ereditato la guida del team, non c’è lo stesso feeling di Colin. Per Elio, Colin era come un secondo padre, invece Warr si rivela un personaggio completamente diverso dall’ex patron della Lotus, un classico inglese freddo, estremamente calcolatore, a cui gli italiani non stavano per nulla simpatici.
Arriva la Renault con i suoi motori turbo e si porta dietro anche la nuova stella Ayrton Senna con i suoi sponsor brasiliani, un argomento, quello economico, molto sentito da Warr. La stagione 1985 inizia bene, ad Imola sale sul gradino più alto del podio ma tra Elio ed Ayrton le cose non funzionano, Peter Warr spinge sempre di più il brasiliano che da seconda guida diventa la prima, e per il romano a fine stagione è ora di cambiare aria.

Bassa, larga e lunga, così si presenta la nuova creazione di Gordon Murray per la stagione 1986. La Brabham BT55 è una monoposto estrema ed innovativa, ma si rivela un progetto difficile da mettere a punto ed una vettura che creerà molti problemi alla squadra di Bernie Ecclestone. I primi problemi appaiono subito durante i test pre-campionato. il telaio in fibra di carbonio, incontra il problema della struttura motoristica, con il quattro cilindri tedesco non abbastanza rigido per sostenere da solo il retrotreno. La lunghezza della vettura, senza una adeguata rigidità torsionale, tende a flettere vanificando vantaggi e la tenuta di strada. Murray deve realizzare un pesante telaio supplementare posteriore che sbilancia la distribuzione dei pesi della BT55. Il lungo passo e la posizione dei radiatori molto avanzata crea problemi di trazione al potente propulsore tedesco che ha difficoltà a scaricare a terra tutti i cavalli. Il quattro cilindri bavarese, che aveva vinto il titolo mondiale solo tre anni prima, è una unità molto potente. In versione qualifica si parla di potenze che superano i 1.350 cv, ma le difficoltà di scaricare a terra la potenza e di messa a punto della BT55 vanificano le aspettative della BMW. Inoltre si verificano diversi problemi di lubrificazione data dall’inclinazione del motore: quando la monoposto viaggia nei curvoni a destra l'olio tende a non tornare nel basamento a causa della forza centrifuga. Problemi anche alla trasmissione, con il nuovo cambio trasversale a 7 marce prodotto dalla casa americana Weissmann, fragile e difficile da mettere a punto.

Elio De Angelis e Riccardo Patrese sono i piloti della Brabham nel 1986. La sogliola di Murray debutta alla prima gara stagionale, il 23 marzo nel Gran Premio del Brasile sulla pista del Jacarepaguà. La BT55 mostra subito delle difficoltà nello stare tra i primi, De Angelis è ottavo, ma staccato di tre giri dal vincitore Piquet con la Williams Honda, Patrese è fermo dopo 21 giri per un problema al circuito di lubrificazione.
I problemi sono tanti, dopo Imola la squadra si trasferisce in Francia per una sessione di test. Quindici maggio 1986, Le Castellet, una pista nel sud della Francia, dove le temperature sono miti anche nella stagione invernale.

Iniziano i test, il lavoro sulla sogliola Brabham continua, è il momento di Elio per scendere in pista e provare nuove soluzioni. La pista del Castellet è uno dei circuiti più noti al mondo per il suo lungo rettilineo del Mistral, si parla di circa 1.800 metri a cui fa seguito la spaventosa Courbe de Signes da percorrere in piena accelerazione a oltre 340 km/h, una piega per piloti veri ed Elio non si tira certo indietro.

De Angelis Indossa la tuta ignifuga, il suo casco con il logo blu e rosso, è pronto ancora una volta a dominare quella sogliola bassa e larga, con il telaio che si torce in piena velocità. Fa caldo sulla pista, il sole batte a picco, ci sono pochi commissari distratti, in pantaloncini corti con piccoli estintori appoggiati al rail. Il quattro cilindri biturbo di Paul Roche scarica tutti i cavalli sul Mistral, ma improvvisamente succede l’imprevisto, si stacca l’alettone posteriore e la macchina senza più carico aerodinamico diventa un oggetto impazzito nella piega di Signes. La BT55 finisce contro le barriere, si ribalta più volte ed infine il fuoco. Alan Jones e Nigel Mansell si fermano, Alain Prost cerca un varco tra le fiamme, ma i commissari sono in pantaloncini corti, gli estintori sono presto vuoti, è la fine.

Di Elio De Angelis resta il ricordo di un pilota molto talentuoso, quanto sfortunato in pista. Ricco e istruito, grande talento con il volante in mano, un gentiluomo fuori dall’abitacolo. Sapeva incantare anche quando suonava il pianoforte, avrebbe potuto diventare un compositore, ma alle melodie delle sette note aveva preferito il suono dei motori da corsa. Un ragazzo gentile e raffinato, legato ad un tragico destino.

Immagini © Raul Zacchè/Actualfoto - Riproduzione riservata

domenica 1 maggio 2022

Ayrton Senna, il sogno spezzato a Imola


> di Massimo Campi - foto Raul Zacchè/Actualfoto

Domenica 1 maggio 1994, una giornata da apocalypse now, il giorno in cui cambia tutta la Formula Uno moderna, il giorno in cui scompare Ayrton Senna. Alle 14 scatta il via, volano le gomme ed una decina di tifosi rimangono feriti, sono quelle della Lotus di Pedro Lamy e della Benetton di JJ Lehto. La safety car guidata da Angelelli rallenta per cinque giri tutto il gruppo guidato dalla Williams di Senna, con la Benetton di Schumacher che segue a ruota. Deve essere la gara di riscatto del brasiliano della Williams, ancora a corto di punti nel mondiale mentre il tedesco della Benetton è già volato via in classifica. Sgombrata la pista, Angelelli spegne le luci della safety car e rientra ai box, Senna forza subito la mano, vuole distaccare quel giovane tedesco arrembante, deve dimostrare che il re è ancora lui! 
Al 7º giro, alle 14.17 la Williams di Senna entra alla curva del Tamburello. La monoposto ha un breve scarto, poi esce per la tangente verso il muro esterno alla pista. Senna fa un ultimo tentativo, si attacca ai freni, ma c’è ben poco da fare. La telemetria mostrerà che la Williams viaggiava a 310 all’ora e l’impatto è avvenuto a 218 all’ora contro il muro in cemento senza nessuna protezione. Mentre Schumacher incredulo passa, la monoposto rimbalza al centro della pista. Senna è immobile nell’abitacolo, la testa si piega sul lato sinistro. Il gelo invade gli spettatori, i soccorsi, e tutto il popolo della televisione. Nell’urto è la ruota anteriore sinistra è finita contro il casco, ma soprattutto un pezzo della sospensione ha perforato il casco del brasiliano con il braccetto della sospensione rotta che perfora la scatola cranica. Il dramma invade il Santerno, per il brasiliano non c’è più nulla da fare, anche se arriva l’elicottero che lo trasporta prima al centro medico poi al reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Maggiore di Bologna, ed alle 18,20 di sera Senna viene dichiarato ufficialmente morto.

Sono passati molti anni da quel terribile fine settimana, dall’addio di quel campione che ha scritto pagine indimenticabili nella storia del motorsport. Improvvisamente la Formula 1 capisce che bisogna cambiare le regole, bisogna rendere più sicuri piste e monoposto. Ayrton era indubbiamente il numero uno, un campione destinato a nuove vittorie, un uomo che aveva ancora tanti stimoli ed il sogno di conquistare un titolo mondiale con la Williams e magari continuare la sua carriera con una vettura del cavallino rampante.

Con lui finisce un’epoca, durata 10 anni con tre titoli mondiali, 80 podi conquistati su 162 gran premi disputati tra cui 41 vittorie con la Lotus e la McLaren e 65 pole position. Numeri destinati ad essere riscritti da Michael Schumacher, il cannibale tedesco, ma per molti “O’Rey” rimane sempre lui, “magic” con quel suo casco giallo, quell’aria un po’ malinconica e quel piede pesante come un macigno!

lunedì 25 aprile 2022

Michele Alboreto, campione indimenticabile


- di MASSIMO CAMPI
- foto di RAUL ZACCHÈ - ACTUALFOTO e MASSIMO CAMPI

Non ha vinto il mondiale, ma il ricordo di Michele Alboreto è ancora forte tra gli appassionati, chi lo ha conosciuto lo ricorda ancora per le sue doti, come pilota, ma soprattutto come uomo. Per iniziare a correre, a dare sfogo alla sua passione, aveva dovuto fare molti sacrifici, poi ripagati da una straordinaria carriera, ma come persona era sempre disponibile, facendo della gentilezza una delle sue migliori doti anche fuori dall’abitacolo.
Michele Alboreto è nato il 23 dicembre 1956, a Milano, pochi anni dopo la famiglia si trasferisce a Rozzano, alle porte della metropoli milanese; il 25 aprile 2001 scompare in un incidente durante un test in Germania.

Michele ha rappresentato un grande esempio di determinazione, passione e tanta voglia di fare e di dimostrare. Alboreto, pur non essendo mai diventato campione del mondo, ed in quel lontano e sfortunato 1985 con la Ferrari lo avrebbe sicuramente meritato, ha rappresentato una figura emblematica per tanti giovani, e per tanti tifosi. La grande forza di Alboreto è stata quella di essere un uomo, ancor prima che essere un pilota. Era considerato un pilota dal piede pesante, ma soprattutto con una testa pensante, che sapeva sempre fare funzionare cercando di cogliere il migliore risultato possibile in ogni occasione. La sua è stata una carriera molto importante, ed è stato l’ultimo che è riuscito a realizzare il sogno del pilota italiano al volante di una rossa.

Enzo Ferrari non voleva italiani, non voleva ulteriori polemiche in caso di incidenti o di lutti, ma dopo tanti anni aveva voluto Alboreto, ed il milanese è stato un pilota importante nella storia della rossa. E’ arrivato nel 1984 e ci è restato fino al 1988, quando è morto il Drake. Se ne è andato da Maranello in silenzio, senza fare polemiche, anche se avrebbe avuto molto da recriminare, soprattutto dal punto vista tecnico e sportivo. Ma Michele Alboreto non è stato solo un campione con le vetture di Maranello, ha corso e vinto anche con le Porsche.
Sentir parlare Alboreto, durante una intervista o una conferenza stampa, aveva un significato particolare: mai banale, sempre cercando il perché delle cose e delle situazioni, a volte sarcastico nei suoi giudizi, a volte con una vena polemica, ma sempre garbata. Prima di essere un pilota era un uomo, sempre disposto a mettersi in discussione, ed a costruire un futuro.

La vittoria più grande di Alboreto è stata alla 24 Ore di Le Mans, nel 1997, con la TWR Joest, un risultato che lo lancia nella grande squadra Audi di Wolfgang Ullrich quando parte l’avventura del team tedesco.
La determinazione e la passione sono sempre state due costanti nella sua carriera: aveva ancora tanta voglia di correre, di ottenere ancora dei risultati come la vittoria a Le Mans e quella di Sebring del 2001, la sua ultima. Voleva conquistare ancora un’altra vittoria sulla Sarthe, proprio con quell’Audi che lo ha tradito.

Il suo casco era facilmente riconoscibile: blu intenso con la striscia gialla, gli stessi colori di Ronnie Peterson, l’idolo della sua gioventù, un pilota che come Michele non è riuscito a conquistare l’alloro mondiale, ma il cuore di molti tifosi, per come guidava in pista, per come sapeva essere un signore delle piste, proprio come Alboreto.
Michele Alboreto era questo, e tanto altro. Con lui è anche finita un’epoca, nella quale i piloti iniziano a correre per merito delle scuderie sportive, arrivano in alto, non per la valigia, ma per le proprie qualità, velocistiche e professionali. 
Riescono a fare sognare le folle al volante di una rossa, e continuano a fare i professionisti ad alto livello per molte stagioni ancora, senza mai arrendersi. Ma soprattutto finisce anche un’epoca dove i piloti sanno essere anche uomini, non solo delle star o dei semplici robot al servizio degli sponsor, e vengono apprezzati anche e soprattutto per questo.

Cosa sarebbe oggi il campione milanese è difficile da immaginare, con la sua voglia di correre e di aiutare i giovani piloti, se la sua vita non fosse stata prematuramente spezzata il 25 aprile 2001, quando la sua Audi, durante un test al Lausitzring prende il volo e si ribalta mettendo fine ad una storia difficilmente ripetibile.

- foto di RAUL ZACCHÈ - ACTUALFOTO e MASSIMO CAMPI -