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mercoledì 2 novembre 2022

Una giornata a Modena con l'Ingegnere


( L'Ingegnere se ne è andato la scorsa notte. Lo ricordiamo 
riproponendo questo racconto di Luciano Passoni,
scritto in occasione di un incontro all'Autodromo di Modena )

Un meeting, un happening od un incontro? Quante definizioni potremmo usare per descrivere la giornata, voluta dall’Autodromo di Modena, per fare cornice al compleanno dell’Ingegnere per antonomasia. Titolo, di studio, riduttivo, dovremmo aggiungere, come per gli hotel, le stelle che qualificano la qualità e qui non avremmo dubbi sul numero….tante, tantissime. 

Ci piace pensare che sia il tavolo allargato di un’osteria modenese, quando si parla in libertà, tra gli squilli di un telefono ed una mano sulla spalla, che crea confidenza e suggella un’amicizia. 
E’ un Mauro Forghieri che lascia libertà alle parole, che concede spazio e pensieri, sia che affondino nella memoria o nei ricordi, sia che anticipano la stagione che verrà, il passato e l’attualità passata al setaccio della discrezione e delle semplici oneste opinioni, di chi ha scritto storie importanti, che non trascendono mai in saccenti sentenze. 
Leo Turrini è il traghettatore degli stimoli, delle domande e delle richieste, senza formalismi e formalità; cogliamo un accenno di commozione, la voce che diventa incerta di fronte alla fotografia di Daytona 1967, frecce rosse che lasciano una scia tricolore: “Orgoglio”, la sintesi di un sentimento per un’appartenenza, ad un’azienda, ad una squadra e a un Paese.

Il futuro elettrico, la Mercedes, Hamilton, la Ferrari, Binotto, Vettel, Leclerc, Lauda, Villeneuve, paragoni e confronti, incalzano le domande e non mancano le risposte, un elenco di episodi, aneddoti, previsioni e l’onore al più grande in assoluto, l’avversario di sempre: “Colin Chapman”.

Un incontro dove le macchine, i motori e i materiali sembrano farla da padroni ma che poi in fondo lascia il doveroso spazio alle emozioni ed ai sentimenti, perché in fondo i protagonisti sono sempre gli uomini, così il finale è consueto, l’assalto del podio, le strette di mano, la conta degli amici e dei presenti, gli autografi, le dediche, le fotografie, i padroni di casa e gli ospiti, da Livio Grassi a Giovanna Montorsi, Margherita Bandini e Renata Nosetto, Gianfranco Palazzoli e Giordano “Dodo” Regazzoni, Gherardo Severi, Rossano Candrini, Ela Lehmann, Giuseppe Nania e Romolo Raimondi, Lello Soncini, Franco Bossi e Alessandro Rasponi, nomi illustri e sconosciuti, invitati o infiltrati che fossero. Tutti rapiti e soddisfatti dall’ingegnere, dalla sua incancellabile storia, scritta per sempre nel firmamento delle leggende.

Foto di Luciano Passoni, Franco Bossi e Rita Colli Nanni

sabato 1 ottobre 2022

GLI EROI DEL LUNEDI


(Pubblichiamo di nuovo questo bel pezzo 
di Luciano Passoni per ricordare Orazio Riponi,
scomparso due giorni fa)

Le corse automobilistiche sono fatte di tante componenti, oggi sono più spettacolo che sport, lo vediamo soprattutto se seguiamo le gare attraverso la tv. Se invece andiamo direttamente in un autodromo gli odori, o i profumi, dell’ambiente, insieme alle scarpe che si incollano all’asfalto caldo della pista, agli sguardi maliziosi delle miss che premiano i piloti o gli spruzzi dello spumante che arriva dal podio, ci portano in una dimensione più reale, ma pur sempre lontana dalla essenza tecnica ed umana: motori, telai, accessori, piloti e meccanici che dovrebbe prevalere. 
Negli ultimi anni anche il settore “gentleman”, amatoriale o dilettantesco, diverse definizioni per definire un settore che è professionale, le auto corrono veloci ed i pericoli sono gli stessi, ma non professionistico, risente di queste variabili. Poi tutto torna nella normalità, quella di una volta, quella dell’occhio del padrone che ingrassa il cavallo. 
Si torna in officina, si smontano le macchine e, lontani da immagini, suoni o rumori che distraggono sguardi e mente, arrivano gli eroi del lunedì, a sporcarsi di grasso, a metterci le mani e la solita passione, la stessa, ineguagliabile e incancellabile, da oltre e più di mezzo secolo. Carlo e Orazio Riponi sono così, non riescono a stare lontani dalle loro creature, quelli fisici: i figli, o i nipoti, in sostanza la famiglia, e quelli meccanici: i motori, i telai, in sostanza le loro auto. 

Un percorso professionale che li ha visti da una piccola officina in centro Melegnano ad un capannone in zona industriale. Una storia che a ben vedere segna una evoluzione sociale, artigiani che sono diventati professionisti mentre la città che cresce vede il suo centro diventare “salotto”, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, mentre trasferisce e ingrandisce le sue attività, almeno quelle più impattanti, nell’immediata periferia. Parimenti il percorso sportivo che nasce nelle gare notturne del piccolo circuito di Monza (quello Junior) per passare alla quasi totalità dei circuiti italiani, almeno quelli più importanti. Prima piloti e poi costruttori, con trofei in gare e campionati, la staffetta in pista con Luca e Maurizio, figli di Orazio, e poi loro, sempre lì, in uno dei tanti lunedì, dove tutto finisce e tutto ricomincia.

mercoledì 28 settembre 2022

Mansell-Williams, binomio mondiale 1992


di Massimo Campi
immagini © Raul Zacchè/Actualfoto

Nigel Ernest James Mansell è il nome completo, ma per i suoi tifosi è stato “il Leone”. Dopo anni di carriera nel 1992, Mansell diventa finalmente campione del mondo giungendo secondo in Ungheria, dietro al rivale Ayrton Senna.

La sua è una lunga rincorsa al titolo mondiale, iniziata nel 1979 quando Mansell partecipa ad un test collettivo organizzato dalla Lotus al Castellet con lo scopo di trovare un pilota da affiancare ad Andretti per la stagione 1980 al posto di Reutemann. Debutta nel 1980 con la squadra inglese, e nel 1981 è al fianco di Elio De Angelis. 

La sua è una lenta maturazione, spesso a suon di uscite di strada ed incidenti. Finisce in Williams, e nel 1986 è al fianco di Nelson Piquet con il V6 turbo Honda, la sua prima grande stagione dove tutto sembra filare liscio per la conquista del mondiale, fino all’ultimo appuntamento ad Adelaide, con la sua Williams che dechappa una gomma mentre è in testa alla gara lasciando il mondiale ad Alain Prost. Seguono anni sempre di vittorie, e di grandi incidenti. La Ferrari, con il tifo del pubblico rosso, ed infine ancora la Williams con il nuovo V10 Renault e le sospensioni attive.

Finalmente il 1992 è l’anno del Leone, la vettura progettata da Patrick Head ed Adrian Newey è un missile, inarrivabile per gli avversari, le sospensioni attive fanno la differenza e Nigel Mansell è quello che le sa sfruttare al meglio.

Come da copione, sul tracciato dell’Hungaroring, le due Williams/Renault monopolizzano la prima fila; in Ungheria è Riccardo Patrese a conquistare la pole position davanti a Mansell, terzo è Senna, seguito da Schumacher, Berger, Brundle, Alboreto e Boutsen. In fondo alla griglia Damon Hill qualifica per la seconda volta nella stagione la sua Brabham, per lo storico team inglese si tratta dell’ultima partecipazione ad un Gran Premio di Formula 1.

Al via Patrese mantiene la testa della corsa, mentre Mansell viene sopravanzato da Senna e Berger. L’inglese ha la meglio su Berger già all’ottavo passaggio, ma resta bloccato alle spalle di Senna; al 31º giro Mansell esce di pista nel tentativo di superarlo, perdendo nuovamente la posizione a vantaggio di Berger. Superato rapidamente l’austriaco, Mansell si mette nuovamente a caccia di Senna. Tuttavia l’inglese smette di pressare il brasiliano quando, nel corso del 39º giro, Patrese si ferma con il motore rotto: a questo punto a Mansell basta il secondo posto per conquistare matematicamente il primo titolo iridato della sua carriera.

L’inglese è costretto ad una sosta supplementare per un problema tecnico, ma non ha problemi a risalire nuovamente in seconda posizione, sfruttando anche il ritiro di Schumacher e le difficoltà di Brundle, alle prese con problemi al cambio. Senna conquista la sua seconda vittoria stagionale, mentre Mansell si laurea Campione del Mondo a cinque gare dalla conclusione del campionato grazie al secondo posto; terzo è Berger, seguito da Hakkinen, Brundle e Capelli.

Nigel Mansell ha disputato 187 Gran Premi di Formula 1, in quel momento storico è il pilota britannico di maggior successo in Formula Uno con 31 Gran Premi vinti e 32 pole position, un record destinato ad essere superato da Lewis Hamilton nel terzo millennio.

domenica 25 settembre 2022

F1 / Keke Rosberg e il Mondiale vinto a Las Vegas quarant'anni fa.


di Massimo Campi – immagini © Raul Zacchè/Actualfoto

Il 25 settembre 1982 la Williams di Keke Rosberg taglia il traguardo con un umile quinto posto, una gara all’apparenza incolore sul tracciato cittadino di Las Vegas, ma è il risultato utile per vincere il titolo mondiale della stagione 1982, un anno che verrà ricordato per i tanti colpi di scena ed i lutti che hanno sconvolto la storia della Formula 1. Sul primo posto del podio finisce il giovane Michele Alboreto, la nuova speranza, ormai una certezza italiana di avere un giovane pilota tra i top driver della massima formula. 
Keke sale sul podio assieme a Michele, Diana Ross, la famosa cantante americana - madrina della gara - premia i due protagonisti che rappresentano una grande sorpresa nel mondo della massima formula di quegli anni.

La gara di Keke Rosberg sembra quella di un tassista, ma per il pilota finlandese è il coronamento di una carriera: la conquista del titolo mondiale, con un solo gran premio vinto, una impresa che sembrava impossibile quando è iniziata la stagione, il 23 gennaio, sul tracciato di Kyalami in Sudafrica.

La storia di Keke Rosberg, nato nel 1948 in Finlandia, sembra quella di Cenerentola, un pilota coriaceo, veloce, ma senza nessun appoggio che lo possa portare in alto in una Formula 1 dove gli sponsor diventano determinanti per trovare un volante tra i team che contano.

È considerato uno dei piloti più veloci, un grande piede pesante, ma mancano gli agganci e si deve spesso accontentare di vetture non all’altezza. Si fa notare in F. Super Vee con una Kaimann, poi arriva in F.2 con una Chevron, corre anche in F.Atlantic e nella Pacific pur di racimolare qualche soldo con sponsor di terzo piano. Ed è proprio nel Sol Levante che si fa notare con Willi Kauhsen che lo vuole come collaudatore della Kojima, ma alla fine mancano i soldi e Keke rimane ancora una volta a piedi rimandando il suo sogno di correre in Formula 1.

Teddy Yip, il magnate delle sale da gioco e dei bordelli di Hong Kong, vuole entrare in Formula 1, commissiona una vettura a Ron Tauranac che crea la Theodore, ma il magnate indonesiano stanzia poche risorse per lo sviluppo e mette Eddy Cheever nell’abitacolo della monoposto che non riesce a passare la tagliola delle qualifiche nelle prime gare del 1978. In Sudafrica scende il giovane italo-americano, sale il finlandese, fa il giro della morte in prova e qualifica la Thodore per il Gran Premio..

Keke ha 30 anni, è ancora a caccia del suo momento di gloria, Teddy Yip lo fa correre pochi giorni dopo all’International Trophy di Silverstone, gara non valida per il mondiale, e Keke sbaraglia tutta la concorrenza sotto l’acqua salendo sul gradino più alto del podio accanto ad un meravigliato Emerson Fittipaldi con la sua monoposto ed alla giovane promessa Tony Trimmer con la McLaren. La Theodore però non va, Yip non vuole spendere soldi per lo sviluppo e l’avventura di Keke Rosberg continua con una vecchia Wolf recuperata dal magnate indonesiano e con la altrettanto malferma Ats del dispotico Gunther Schmidt.

Rosberg è il classico pilota sempre a caccia di un abitacolo pur di correre, nel 1979 sostituisce James Hunt sulla Wolf, e passa alla Fittipaldi nel 1980 dove va subito a podio in Argentina. Nella gara dopo in Brasile, Keke è dietro al suo caposquadra, Emerson non è più qual gran manico che ha vinto i titoli mondiali con la Lotus e la McLaren, lo passa in un curvone all’esterno davanti ad una tribuna piena di folla. Emerson ai box lo vorrebbe incenerire, ma intanto finiscono i soldi e l’avventura della Fittipaldi precipita sempre di più nelle retrovie.

Nel 1981 Keke e Chico Serra corrono con il team brasiliano che va avanti a vista in un mare di debiti con motori sempre più stanchi e vetture che faticano a superare le qualifiche. Per Keke la Formula 1 sembra ormai un ricordo a fine stagione. Il finlandese parte per la California, e mentre si sta rilassando qualche giorno sulle spiagge del Pacifico e cerca qualche valida alternativa per il futuro arriva la chiamata che gli cambia la vita. “Ciao Keke, Alan Jones si vuole ritirare ti va di fare un test con la Williams?” Keke non perde un istante, salta sul primo aereo e raggiunge il sud della Francia, Sale nell’abitacolo della Williams al Paul Ricard, sistema gli specchietti e parte a razzo. Qualche giro e stampa subito il nuovo record della pista, l’affare è fatto, Keke Rosberg è il secondo pilota del team per il 1982 con un contratto di 250.000 dollari, una fortuna mai vista nelle tasche del finlandese che può anche gestirsi i propri sponsor sulla tuta.

Debutto a Kyalami, situazione difficile con tutti i piloti capitanati da Niki Lauda e Didier Pironi che decretano uno sciopero durante le prove contro la Federazione che vuole far pagare una esosa tassa sulla superlicenza per correre in Formula 1. Poi tutto rientra e si inizia a correre in una stagione tra alta tensione, sorprese, incidenti e lutti, una vera roulette con un esito finale per niente scontato.

Il finlandese obbedisce agli ordini di squadra, ma in Brasile le cose cambiano improvvisamente con Carlos Reutemann, il primo pilota della Williams, che dice basta e si ritira dalla Formula 1. Keke da capitato per caso, si ritrova promosso a prima guida, deve condurre lui il team assieme a Derek Daly fino alla fine stagione. Ad Imola nuova grana, con i Team Inglesi che si rifiutano di correre, le Ferrari di Pironi e Villeneuve fanno cinema per gli spettatori, ma alla fine il francese non rispetta i patti, va a vincere ed iniziano, tra una marea di polemiche le due settimane più strane per la rossa che porteranno al dramma di Villeneuve a Zolder.

Keke intanto da pilota coriaceo e roccioso inizia a badare ai risultati, senza mai strafare, cercando di rimanere sempre fuori dai casini, sale sul podio diverse volte, ma le Ferrari e le Renault sembrano imprendibili con i loro motori turbo molto più potenti del vecchio DFV aspirato. Pironi è il leader del mondiale, ma si spezza le gambe in prova ad Hockenheim volando sulle ruote di Prost. Per il francese è la fine della carriera nella massima formula e la classifica è sempre più aperta. In Austria c’è il gran finale, con Keke che arriva secondo in volata, per soli cinque centesimi di secondo, dietro la Lotus di Elio De Angelis, ma il grande giorno arriva a Digione nel Gran Premio di Svizzera con Keke che fa volare la Williams in terra di Francia. Siamo a fine stagione, si prospetta il grande colpo, fuori Pironi l’unico antagonista è John Watson, con la McLaren, e la resa finale è nel parcheggio del Caesar Palace di Las Vegas.

“Mi basta un quinto posto per vincere il titolo mondiale e corro solo con questo obiettivo, senza volere strafare!” Rosberg corre tra i muri di cemento senza commettere errori, lascia sfogare quelli davanti con Michele Alboreto che coglie la prima vittoria in carriera. Quando taglia il traguardo ha raggiunto il suo obiettivo “Ero diventato campione del mondo, la mia vita è cambiata, per la seconda volta nel giro di pochi mesi, e questa volta per sempre!”

Da zero ad eroe, da brutto anatroccolo a cigno, è questa la favola di Keke Rosberg in quella strana stagione 1982 che ha cambiato la storia del pilota finlandese.

 

sabato 17 settembre 2022

F1/ 1977, l'anno del divorzio Lauda-Ferrari


di Massimo Campi
Immagini © Raul Zacchè/Actualfoto

Gran Premio d’Italia 1977, Niki Lauda è Campione del Mondo, dopo un anno dal clamoroso ritorno nell’abitacolo della rossa, dopo il tremendo incidente del Nurburgring, il campione austriaco conquista il suo secondo titolo mondiale. Sembra il bellissimo finale di una storia che ha tenuto molti sul filo del rasoio, invece la parola fine si scriverà pochi giorni dopo, quando il campione austriaco annuncia il divorzio dalla rossa. È la fine di un’epoca, la fine di un matrimonio che poteva dare ancora tante soddisfazioni, ma tra Niki Lauda ed Enzo Ferrari la frattura risaliva ad alcuni mesi prima, quando il Drake aveva deciso di sostituire il suo pilota numero 1.

E’ il 15 settembre del 1977 quando in una sala dell’hotel Holiday Inn di Roma, Niki Lauda annuncia in una conferenza stampa il suo passaggio alla Brabham-Alfa Romeo. E’ l’epilogo di una vicenda che ha tenuto banco per molti mesi e che rappresenta un capitolo importante nella storia della F.1.

Il rogo del Nurburgring diventa il punto di svolta tra la Ferrari e Lauda. Il pilota campione del mondo diventa sempre più importante e nella mente di Enzo Ferrari inizia una sorta di fastidio verso quel pilota che sta diventando sempre più famoso rispetto alle vetture del cavallino.

Dopo il Nurburgring ci sono alcuni piloti pronti ad entrare nell’abitacolo della rossa, ma uno in particolare non è gradito a Lauda, ovvero Ronnie Peterson, il pilota svedese che anche l’austriaco teme. Peterson è da tutti considerato un campione velocissimo e senza nessun compromesso, veloce ed estremamente redditizio, insomma una vera spina nel fianco per Lauda. Infine arriva Reutemann, veloce, ma non così temibile come lo svedese.

Lauda si presenta al via a Monza 1976, con le ferite ancora aperte, ma pronto a difendere il suo titolo mondiale ed il suo volante della rossa, ma con Enzo Ferrari non c’è più quella atmosfera idilliaca dei giorni vittoriosi. Poi arriva l’epilogo al Fuji 1976, quando Lauda rinuncia a correre sotto la pioggia lasciando il titolo nella mani di James Hunt. Nonostante l’ingegner Forghieri gli proponga di parlare ufficialmente di problema elettrico, l’austriaco si assume tutta la responsabilità di un ritiro che consegna la corona iridata ad Hunt per un solo punto. Una decisione di cui Lauda non si pentirà mai, ritenendo insensato correre su una pista completamente allagata. Una decisione che però scaverà ulteriormente il solco tra il pilota e Ferrari.

La stagione 1977 è quella del riscatto e della conferma, dove l’austriaco troverà tutte le motivazioni del fuoriclasse qual è. Al volante della rossa vince solo tre gare, ma la regolarità nei piazzamenti gli frutterà la sua seconda corona iridata. La vendetta però deve ancora venire. Lauda con la Ferrari ha chiuso e cova il risentimento per la mancanza di fiducia mostrata dal Commendatore.

Il 3 luglio, quando a Digione va in scena il G.P. di Francia, Bernie Ecclestone, boss della Brabham avvicina il ferrarista:” Vieni alla Brabham, sto costruendo una vettura formidabile.” Niki non rifiuta e risponde che ci deve pensare. Dietro ci sono anche tanti soldi: Ecclestone ha già pronto 400 milioni di dollari per il pilota, mentre la Martini e Rossi, l’allora title sponsor della Brabham, porterebbe il budget in favore del team da 700 a un milione di dollari. Ad agosto vengono stilati i primi accordi, intanto “Mister E” incontra anche Calisto Tanzi proprietario della Parmalat, la nota azienda casearia italiana, pronta a sostenere l’operazione offrendo 100 mila dollari in più alla Brabham rispetto alla Martini ed un emolumento più ricco a Niki, lasciandogli libertà di disporre della tuta intera.

Lauda, da buon uomo di affari, riesce a spuntare il massimo dall’operazione, infine emerge la verità al punto che l’offerta di Ferrari diventa quasi ridicola. Si parla di circa 530 milioni di lire per il pilota austriaco, inoltre il quasi due volte campione dice che il vero problema non è di natura economica, bensì legato alla ricerca di stimoli: vuole fare esperienza altrove e con nuovi uomini. La situazione diventa insanabile ed infine l’austriaco è pronto ad abbandonare Maranello verso nuovi lidi.

Finita l’era Lauda, a Maranello sono pronti per nuove avventure. La nuova scommessa si chiama Gilles Villeneuve, non vincerà nessun titolo, come Lauda con la Brabham di Ecclestone, ma conquisterà in cuore degli appassionati. Intanto Enzo Ferrari si consola con un nuovo titolo mondiale, quello del 1979 con Jody Scheckter, ma in molti rimpiangono quelle scelte scellerate verso il campione austriaco che ormai dava fastidio, con la sua fama, al Drake di Maranello. La ferita tra Ferrari e Lauda si rimarginerà solo dopo qualche anno, casualmente durante dei test ad Imola nel 1982, Niki si trovò di fronte Ferrari, in riva al Santerno ci fu dapprima uno scambio di battute sulle rispettive famiglie e poi l’affondo “scherzoso” del Drake:” Se fossi rimasto alla Ferrari, avresti eguagliato il record di Fangio.” Quello dei cinque mondiali vinti. Una stoccata, che forse nasconde il rammarico per non aver allungato una probabile striscia di trionfi con un campione stimato.



lunedì 5 settembre 2022

Clay Regazzoni, campione della passione


- di Massimo Campi
- Immagini © Raul Zacchè/Actualfoto

Svizzero di nascita, italiano di origini e adozione, latino di carattere. Clay Regazzoni era simpatico e istrione, un campione di cuore, amato ovunque andasse, con quel suo modo di intendere le gare, di affrontare la vita. Ci metteva impegno, serietà, grinta, ma anche quel senso di piacere nel seguire le sue passioni. Sempre in entrambe le sue due vite, quella prima e quella dopo. Già due vite, unite dalla velocità e separate da un pedale del freno che si spezza a Long Beach.

“Viveur, danseur, calciatore, tennista e, a tempo perso, pilota: così ho definito Clay Regazzoni, il brillante, intramontabile Clay, ospite d’onore ideale per le più disparate manifestazioni alla moda, grande risorsa dei rotocalchi femminili… si affinò, come stile e temperamento, che era fra i più audaci, fino a diventare un ottimo professionista. Gli avversari lo hanno sempre rispettato”. Enzo Ferrari si innamora presto di Gian Claudio Regazzoni al secolo Clay, come era stato chiamato da quella marea di pubblico che lo porta in trionfo a Monza 1970, quando sbanca il Gran Premio d’Italia alla sua terza gara con la Formula 1.

Il 5 settembre 1939 cominciava la storia di Regazzoni. La cronaca dice che era nato a Lugano, Svizzera, Canton Ticino, e già aveva la velocità nell’indole. “Gian Claudio venne alla luce così in fretta che volevano chiamarlo Furio” è il lontano ricordo di sua madre, invece, proprio la mamma fu incuriosita da un nome che vide su un giornale, Jean Claude, Gian Claudio all’italiana, o ticinese.

Il padre, carrozziere; Clay le macchine inizia a conoscerle nel cortile della azienda di famiglia. Silvio Moser, l’amico che lo porta in pista, gli fa conoscere la passione, la velocità, la competizione. E via per le piste, Clay va veloce, ha grinta. Formula Tre, Clay è ben presto nel manipolo dei giovani rampanti, dove ogni staccata è quella decisiva. Si corre su piste improvvisate, su piste vere, su tracciati cittadini. Clay sfida più volte la sorte: a Montecarlo la sua Tecno si infila tra le lame del rail. Si ferma con il casco che sfiora la lama metallica, per pochi millimetri non rimane decapitato. Niente paura, sono cose che succedono in quegli anni, come quando a Caserta perdono la vita tre cavalieri del rischio e Clay ancora una volta esce indenne da quel macello.
Formula Due, al via con la Tecno ufficiale dei Fratelli Pederzani, è il 1970, il suo anno. Vince il titolo europeo, lo vuole Enzo Ferrari ed a Monza sbanca la roulette della passione. Clay è un campione, l’Italia da corsa, la Ferrari, aspettava da anni un pilota così, anche se corre con la stella rossa crociata sul casco bianco per tutti è italiano, soprattutto dentro. È il giorno dopo della scomparsa di Jochen Rindt, Monza passa dal dolore alla festa rossa. Cinque anni dopo, nel 1975 è ancora Clay ad essere portato in trionfo nel giorno della conquista mondiale di Niki Lauda e della vittoria Ferrari col pilota più amato. Regazzoni non è solo Ferrari. L’idillio con la rossa finisce, ma non con i suoi tifosi. Passa alla corte di Frank Williams e, a 40 anni, regala alla squadra britannica la sua prima vittoria in Formula 1 sulla pista di Silverstone.

30 marzo 1980, Long Beach (California). È il 51° giro di gara, Clay pigia il freno della sua Ensign per affrontare la staccata alla fine della Shoreline Drive. Sotto la suola della sua scarpa trova il vuoto, il pedale si è spezzato, la monoposto viaggia ad oltre 250 all’ora ed alla fine del rettilineo c’è solo un muro di cemento. Quella volta ha perso la sua personale sfida con la sorte, da quel momento inizia la sua seconda esistenza.
Ha preso il via a 132 gare, dove ha ottenuto cinque vittorie, 13 secondi posti, 10 terzi posti, una serie di piazzamenti e per ben 15 volte il giro più veloce in gara. Clay Regazzoni deve dare l’addio alla Formula 1. Lo attendono quattro anni di ospedale, più di 60 ore di interventi e la sedia a rotelle come compagna di avventura, perché ormai c’è la certezza che Clay non avrebbe più camminato.

Cambia la prospettiva, ma non cambia la passione ed il modo di affrontare la vita. Clay non si ferma, comincia a sviluppare i sistemi di guida manuale e prosegue a correre. Prende parte più volte alla Parigi-Dakar, corre in kart, sulle vetture d’epoca, e diventa uno specialista dei grandi raid.
Clay, anche sulla sedia a rotelle, sembrava immortale con un volante in mano. Poi l’ultimo atto:  scompare il 15 dicembre 2006 in un incidente d’auto sull’autostrada A1 non lontano da Parma.
Clay Regazzoni, da quella vittoria rossa del 1970 e dalle sue avventure nel deserto africano, è diventato un mito che è riuscito a sconfiggere il tempo e le avversità che gli ha riservato la vita, cogliendone sempre il meglio, magari con una battuta ed un sorriso. È mancato il titolo mondiale, quello scritto in cima alle classifiche negli albi d’oro, ma non il rispetto degli avversari. Clay, con la sua vita, il suo stile in pista e fuori, la sua personalità, le sue imprese, i tanti tifosi sulle piste che lo hanno sempre acclamato, ha saputo conquistare lo speciale titolo di “campione della passione rosso Ferrari”.


giovedì 1 settembre 2022

Le sfide di Bruce McLaren, l'ingegnere-pilota


di Massimo Campi
foto Raul Zacchè - Actualfoto

Bruce Leslie McLaren nasce il 30 agosto del 1937, ed il padre Les ben presto capisce che qualcosa nel suo amato figlio non va: ha la malattia di Perthes nella forma più grave. Il piccolo Bruce passa la sua infanzia rimanendo tre anni in terapia muovendosi con l’ausilio delle stampelle. Alla fine si deve rassegnare ad avere una gamba più corta dell’altra per sempre, ed a non potere giocare al suo sport preferito, il rugby.
Quegli anni di sofferenza, di disagio fisico forgiano il carattere del tenace Bruce. Scatta la voglia di farcela, di arrivare ugualmente, non nel gruppo, non con gli altri, ma davanti, per primo. Camminava con le stampelle e i muscoli delle braccia divennero tesi, arrotondati, potenti, quando le gettò nella spazzatura, si fece fare delle speciali scarpe ortopediche che pareggiavano la lunghezza della gamba malata con quella sana per nascondere il suo camminare da zoppo.
Oggi, parlare di McLaren significa una squadra, forte, quella che ha conquistato i mondiali con piloti del calibro di Fittipaldi, Hunt, Prost, Senna, Hakkinen, ma all’inizio di questa avventura c’è la storia di un uomo, venuto da lontano, dai confini del mondo della Nuova Zelanda, che ha dovuto lottare fin da piccolo contro le avversità della vita, ed è morto, il 2 giugno del 1970 mentre stava collaudando una sua creatura sul tracciato di Goodwood.

L’adolescenza la passa nella stazione di servizio, a Remuera nei sobborghi di Auckland, del padre che ben presto si accorse della cocciutaggine e della voglia di emergere del piccolo Bruce. Les aveva gareggiato in moto, amava le corse, la meccanica, e tra le macchine aveva in officina una Austin 7 che giudicava troppo potente e pensava di venderla, ma Bruce, che aveva solo 14 anni e già guidava la macchina si oppose, a lui la “7” piaceva, era la sua vettura ideale, tanto che una domenica mattina, a soli 15 anni, appena ottenuta la patente, la prese “per fare un giro” ed andò ad iscriversi ad una gara in salita. Quando rientrò nel pomeriggio aveva sul sedile del passeggero una coppa: prima gara e prima vittoria, tanto per fare capire chi era Bruce McLaren!

Dopo la prima vittoria ne seguono altre, il binomio McLaren-Austin è spesso primo nelle gare in salita della Nuova Zelanda, ed intanto Bruce studia, ovviamente meccanica, ed impara a preparare la sua macchina per migliorare le prestazioni. Avena 19 anni e non aveva ormai dubbi sul suo futuro: diventare pilota professionista. Nel 1956 McLaren compì il salto di qualità: acquistò una Cooper-Climax di F.2 usata, appartenuta a Jack Brabham e trascorse tutto l’inverno a inviare lettere a colui che sarebbe diventato 3 volte iridato per avere delucidazioni sulla preparazione della sua ex monoposto. L’orso australiano rimase stupito da quella curiosità, si segnò il nome del quel ragazzino e nel ’57 seguì le evoluzioni di Bruce in pista, capendo che dietro la curiosità esisteva il talento.

Quando nell’inverno Brabham giunse in Nuova Zelanda per il Gp, inserito nella Coppa Tasmania, portò con sé una Cooper in più da destinare a Bruce. E McLaren non lo deluse: si aggiudicò il concorso “A Driver for Europe”, la borsa di studio per il miglior talento neozelandese: per Bruce il 1958 sarebbe stato scandito da una Cooper F.2 ufficiale e dalla residenza in Inghilterra sotto l’ala protettrice di Jack Brabham. Il giovane Bruce impara in fretta, è veloce, ha talento ed arriva il grande giorno, il 3 agosto del 1958. quando la sua piccola F.2 viene schierata al via del GP di Germania, dietro le più potenti monoposto di F.1. Nordschleife, tracciato tosto, per piloti veri, su 26 qualificati Bruce McLaren si classifica 15° e 1° tra le monoposto della categoria cadetta. In gara dietro a Brooks, Salvadori, Trintignant e von Trips, al 5° posto, c’è lui, vincitore di categoria. A fine anno arriva 12° assoluto e 2° tra le F.2 al Gp del Marocco, quello dell’affermazione nel mondiale costruttori della Vanwall e della morte di Lewis-Evans.

Il volante in F.1, con una Cooper è suo per la stagione 1959. A Montecarlo arriva 5°. Ripete il risultato in Francia. Ad Aintree diventa il più giovane pilota nella storia a salire sul podio, conquistando il 3° posto. E dopo i ritiri in Germania, Portogallo e in Italia, Bruce entra nelle statistiche di ogni tempo: il 12 dicembre a Sebring vince il Gp degli Usa. Ha appena compiuto 22 anni, è il più giovane ad avere colto il successo in F.1. Il suo record resisterà per molti anni, mentre Jack Brabham vince il suo primo titolo mondiale. In pochi, tra i giovani del mondiale, posseggono il talento scientifico di Bruce, la sua visione tattica, la sua precisione nel mettere a punto la vettura. McLaren vince il primo Gp del 1960 a Buenos Aires. Poi fa da scudiero a Brabham ed è 2° nel mondiale, andando a podio in tutte le corse alle quali partecipa, tranne che a Zandvoort. Brabham decide di diventare costruttore, alla Cooper c’è McLaren talento nato che continua a fare risultati importanti anche in periodi di vacche magre. Nel 1962 McLaren vince a Montecarlo, tiene su una baracca che sta cedendo sulla spinta della maggiore competitività di Brm e di Lotus. Bruce però continua ad occuparsi di meccanica, il suo faro rimane sempre “balck Jack” Brabham e Cooper non può fare altro che assecondare il desiderio del suo pilota, quando a fine 1963, gli chiede il permesso di fondare una propria scuderia, la Bruce McLaren Motor Racing Limited per schierare due Cooper nella Coppa Tasmania con motore Climax 2700.
I piloti sono McLaren stesso e un giovane americano di nome Timmy Mayer. Come team manager viene convinto il fratello di Timmy, Edward Mayer detto Teddy. Il capo-meccanico è portato in dote dai Mayer: si chiama Tyler Alexander. Il team domina la serie ma Timmy Mayer muore durante le prove dell’ultima corsa.
Suo fratello Ted decide di restare a fianco di Bruce, così come Tyler Alexander. Nasce la McLaren. Pur continuando con la Cooper in F.1, Bruce si convince sempre più a diventare costruttore.
Da Roger Penske acquista la Zerex Special, un telaio ex Cooper F.1 modificato per ospitare due posti. La smonta e la ricostruisce secondo i propri concetti, la porta in corsa a Mosport in Canada vincendo, poi la presenta in Europa. Nel frattempo sta realizzando la prima vera McLaren della storia: la M1 che nasce nel Middlessex a Feltham. È una biposto a motore Oldsmobile. Il 26 settembre 1964 debutta a Mosport con una vittoria. Da questo momento Bruce McLaren si divide: è pilota professionista tra i più capaci e team manager. Corre ovunque nel 1965: per la Cooper in F.1, per la Ford con la GT40, nelle sport e con la sua vettura auto costruita. È l’ultimo anno con la Cooper, la squadra che lo ha tenuto a battesimo nelle corse europee e che lo ha fatto grande nel mondiale. Nel frattempo Bruce ha incontrato un giovane ingegnere molto promettente: si chiama Robin Herd, ha collaborato spesso con l’industria aeronautica, è esperto di materiali e aerodinamica ed è questo incontro che determina la decisione finale: lasciare la Cooper e imitare in tutto e per tutto Jack Brabham, diventando costruttore al 100%. C’è solo un problema: trovare un motore competitivo per la formula 3 litri che è andata a sostituire la gloriosa 1,5.
Bruce è pilota ufficiale della Ford, Teddy Mayer il suo abile stratega. La Ford concede il permesso di
sviluppare un propulsore derivato da un Ford 4700 di Formula Indy, ridotto a 3000cc che viene montato, nel 1965 sulla prima McLaren di F.1 la M2B. Ha un telaio disegnato da Herd e realizzato in Mallite, un laminato composito. L’idea è rivoluzionaria ma il motore è poco competitivo, ha solo 300 cv e spesso si rompe. Dopo appena un Gp, la McLaren accetta l’offerta della Serenissima del Conte Volpi che mette a disposizione del team un Ford V8 modificato dall’ingegner Massimino, ex Ferrari, e sviluppato dall’ex meccanico di Stirling Moss, Alf Francis. I cavalli sono ancora meno, appena 260, ma è ben più robusto, in teoria, dell’altro che nel frattempo giace al banco in fase di modifica. La collaborazione si rivela disastrosa e quando il Ford V8 originale torna in pista, la McLaren soffre sempre rispetto alla concorrenza. Bruce si consola vincendo la 24 Ore di Le Mans in coppia con Chris Amon sulla Ford GT40. Nel 1966 la McLaren monta un Brm: Bruce arriva 4° a Monaco, ma a tre giri e poi fa collezione di ritiri. Le sue vetture, in compenso, diventando le regine della Can Am con Bruce che vince il titolo del 1967. A fine anno Robin Herd abbandona il team per andare a lavorare al progetto della Cosworth 4 ruote motrici di F.1 dopo avere ultimato la M7A che monta il Cosworth DFV. Al posto del geniale Herd viene promosso il suo assistente, Gordon Coppuck. Denny Hulme dopo avere vinto il titolo mondiale abbandona la Brabham per passare nel team di Bruce. La coppia spopola, i due dominano la Can Am e soprattutto diventano presenze importanti in F.1.

La M7A è semplice, raffinata, adattabile, il Cosworth è il degno compagno di un telaio sul quale Herd ha corretto gli errori dei primi modelli, raggiungendo la quasi perfezione costruttiva. Dopo due ritiri in Spagna e a Monaco, Bruce realizza il suo sogno: il 9 giugno vince il Gp del Belgio. Tutto in poco più di 12 anni. La McLaren lotta anche per il titolo con Hulme, che vince a Monza e in Canada. La voglia di McLaren per la tecnica lo porta anche al successo in F.Indy.
Bruce McLaren è super impegnato, pilota, costruttore, team manager, capisce che ormai il dividersi nella doppia veste può procurare più danni che benefici. Il 1969 è un anno di transizione. Intanto il fido Teddy Mayer lo indirizza a occuparsi più degli aspetti gestionali, cerca di convincerlo ad ipotizzare il ritiro dalle corse, ma McLaren non molla, almeno nel 1970 decide di proseguire in F.1. Deve compiere 33 anni, gli piace guidare ma soprattutto ama collaudare e sviluppare le sue vetture. Inizia la stagione con un ritiro a Kyalami, arriva 2° al Jarama, poi abbandona aa Montecarlo con una sospensione rotta. È il suo ultimo Gp. Il 2 giugno si reca a Goodwood per collaudare l’amatissima M8D Can-Am che Hulme non può sviluppare perché a Indianapolis ha subito un bruttissimo incidente ed è momentaneamente fuori gioco. Si allaccia le cinture, mette in moto, prende la via della pista, che ormai da anni è fuori da qualsiasi giro di corse importanti e non rappresenta il massimo per la sicurezza. All’uscita di una curva, perde il retrotreno, la vettura caracolla, finisce contro una postazione in disuso dei commissari. Bruce muore sul colpo con quel volta da eterno ragazzo, mentre stava consolidando quel suo sogno, voluto con forza e la cocciutaggine di chi sa che deve lottare duro per ottenere dei risultati nella vita.

mercoledì 31 agosto 2022

La Ferrari 330 P4 e il Mondiale del 1967



- di Massimo Campi
- foto Raul Zacchè

La Ferrari con le ruote coperte ha vinto ben 14 titoli mondiali e tra tutte le vetture del cavallino rampante che hanno conquistato le vittorie nella categoria, una più di tutte ha lasciato il segno: la Ferrari P4 del 1967.

Nella storia della fabbrica di Maranello vi sono vetture che non hanno nel loro palmares tante vittorie, ma solo quelle più famose e tra queste c’è sicuramente la Ferrari 330 P4, che, nel 1967, ha segnato la sfida conclusiva con la Ford, l’atto finale di una guerra iniziata nel 1964 con la rinuncia di Enzo Ferrari a vendere la sua fabbrica alla Casa americana.
Ford contro Ferrari, il colosso di Detroit contro il piccolo costruttore di Maranello, una sfida che ha fatto scrivere intere pagine di giornale e che ha tenuto viva l’attenzione degli appassionati nella metà degli anni ’60. L’atto finale di questa guerra, celebrata anche sul grande schermo, è la stagione 1967, con la Ford che vince a Le Mans ma la Ferrari riconquista il titolo mondiale. Un sfida che, rivista dopo tanti anni, è finita con un pareggio dove ognuno dei due sfidanti ha ottenuto le proprie soddisfazioni. Ripercorrendo quella fantastica stagione c’è sicuramente una gara che rappresenta la vera vittoria delle rosse: la 24 Ore di Daytona, con le Ferrari che vincono in parata in terra americana, praticamente in casa del nemico, una immagine che ha fatto il giro del mondo. La grande protagonista di quella stagione è la nuova Ferrari 330 P4, il più bel prototipo uscito dalle officine di Maranello.

Uno smacco per gli americani, Henry Ford dichiara guerra al piccolo costruttore italiano che conquistava le prime pagine dei quotidiani con le sue sonanti vittorie nelle gare domenicali. Sotto il marchio americano viene realizzata la Ford GT, in seguito ribattezzata GT40, proprio per conquistare quegli spazi e rivaleggiare con le rosse di Maranello. L’obbiettivo è quello di vincere la 24 Ore di Le Mans, la gara di durata per eccellenza ed il Campionato Mondiale Sport Prototipi, la serie più seguita nel panorama sportivo dell’epoca. La Ford riesce a conquistare la maratona della Sarthe nel 1965 e la rivince nei due successivi anni, sempre sconfiggendo le rosse di Maranello, ma il Campionato Mondiale lo conquista solamente nel 1966. Le grandi gare di durata, oltre alla Ford, richiamano anche la General Motors, che finanzia la costruzione della Chaparral, altra sfidante dei piccoli costruttori europei. L’arrivo dei colossi americani fa cambiare velocemente lo scenario delle competizioni: aerodinamica, motori potentissimi con cilindrate di oltre sette litri, accessori, pneumatici, e soprattutto ingenti stanziamenti finanziari, danno una improvvisa accelerazione a tutto l’ambiente sportivo.

La piccola Ferrari rimane il baluardo europeo che si difende contro i dollari e la tecnologia del nuovo mondo ed ogni corsa è una sfida che va oltre il puro aspetto sportivo. La Ford con le sue GT MkII e MkIV “con i cilindri grossi come fiaschi”, come affermava spesso Enzo Ferrari, vincono a Daytona, Sebring e Le Mans, mentre le altre vetture conquistano spesso le gare europee spaccando il mondo delle corse in due fazioni: quella pro-Ford e quella pro-Ferrari.

L’atto finale di questa sfida arriva proprio nel 1967, quando la scuderia di Maranello scende in pista con la nuova 330/P4, derivata dalla 330/P3 del 1966 che aveva dovuto soccombere allo strapotere Ford. Il grande giorno arriva alla 24 Ore di Daytona, con le rosse che sfilano in parata sotto la bandiera a scacchi, sancendo la loro superiorità nei confronti del colosso americano, una vittoria che rimarrà nella storia, sicuramente tra le più significative nel lungo palmares di Maranello. L’impresa non riesce a ripetersi a Le Mans, ma a fine anno sarà ancora la P4, con i suoi risultati, a riportare l’alloro mondiale in terra emiliana.

Il Drake, che ama le sfide, ha reagito con la sua solita grinta alle sconfitte degli ultimi anni spronando i propri uomini a realizzare la nuova vettura: “dobbiamo assolutamente batterli quelli là”, usava dire ai suoi collaboratori. Li mette sotto pressione ed alla fine ne esce la più bella vettura prototipo realizzata a Maranello. A fine anno ‘67 la casa di Maranello si può fregiare nuovamente del titolo mondiale sopravanzando le potenti vetture americane del colosso di Detroit con i motori di 7 litri. La 330 P4 è prodotta in soli quattro esemplari con i numeri di telaio 0856, 0858, 0860, e la 0846 che è una 330 P3 aggiornata con le specifiche della 330 P4. 
Presentata alla stampa nel cortile di Maranello, il 26 gennaio 1967, pochi giorni dopo ottiene la sua vittoria più clamorosa alla 24 ore di Daytona. Nel catino della Florida è la P4 di Chris Amon e Lorenzo Bandini a tagliare per prima il traguardo, ed il D.S. della Ferrari, Franco Lini, si inventa l'arrivo in parata con tre Ferrari affiancate sulla linea del traguardo: la P4 vincitrice assieme alla vettura gemella di Scarfiotti-Parkes ed alla 412 di Rodriguez-Guichet. Le immagini di quell’arrivo sono entrate nella leggenda delle corse automobilistiche.

La carrozzeria della P 4 realizzata da Piero Dongo, un artigiano modenese, è prevista sia in versione aperta che chiusa, a seconda delle piste, la sua linea sarà definita “meravigliosamente bella” un esempio di design tra i più puri della storia. Il motore posteriore centrale è il 12 V di 3.967 cc con una nuova testata a tre valvole per cilindro, disegnata da Franco Rocchi e già sperimentata con successo sulle monoposto di F.1. Al banco la potenza registrata è di 450 cv, cento in meno delle Ford avversarie, che però montano un motore di 7 litri. In compenso la Ferrari pesa 792 kg contro i 998 kg delle vetture americane. Il cambio, è ritornato ad essere di produzione Ferrari dopo la soluzione ZF usata nella 330 P3. La P4 monta i nuovi pneumatici della Firestone al posto dei Dunlop usati nella stagione ‘66.

La 330 P4,oltre la 24 ore di Daytona, conquista anche la 1000 km di Monza, sempre con Amon-Bandini. A Spa arriva solamente quinta, a Le Mans seconda dopo una rimonta di Parkes sulla GT 40 di Foyt-Gurney. La gara decisiva dell'anno, per la P4, è la 1000 km di Brands Hatch che si corre sul tracciato inglese il 30 luglio del 1967. Sul gradino più alto del podio sale la Chaparral di Hill-Spence, ma il secondo posto della P4 di Amon-Stewart, davanti alla Porsche di Mc Laren-Siffert, basta alla Casa di Maranello per aggiudicarsi il Trofeo Internazionale Prototipi del 1967.

La Ferrari 330P4 corre nel campionato mondiale solo nella stagione ‘67. Dal 1968 entra in vigore il nuovo regolamento che impone vetture sport di 5 litri prodotte in almeno 50 esemplari. Enzo Ferrari, infuriato per il nuovo regolamento imposto dalla Federazione Internazionale, e non disponendo di una nuova vettura, deicide di non partecipare al campionato del mondo 1968. La 330 P4 va così in pensione, ma lascia un gran ricordo nei cuori ferraristi. Delle quattro vetture realizzate dalla scuderia di Maranello, due vetture vengono successivamente modificate nelle 350P con il V12 portato a 4,2 litri per correre nella serie Can Am americana con Chris Amon.

venerdì 19 agosto 2022

F1 Anni Settanta, foto dall'Archivio di Franco Bossi

F1 Anni Settanta
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